A COLLOQUIO CON ALESSANDRO SBORDONI
IL LUOGO IN CUI UN ARTISTA SCEGLIE DI VIVERE E OPERARE È SPESSO UN DATO ACCESSORIO, O COMUNQUE SECONDARIO RISPETTO ALLE VICENDE DELLA SUA STORIA creativa. In alcune circostanze può diventare invece una chiave di lettura determinante per interpretare la sua poetica e il suo operato artistico: è questo il caso di Alessandro Sbordoni, la cui storia è legata in modo profondo e quasi indissolubile alla città di Roma. A Roma il compositore è nato, si è formato, e negli ultimi anni è tornato a svolgere la sua attività didattica insegnando al Conservatorio di Santa Cecilia. Ma a Roma, soprattutto, Sbordoni ha maturato la sua concezione della musica e dell’operare artistico lavorando al fianco di musicisti come Franco Evangelisti, Domenico Guaccero e Giacinto Scelsi. Per un giovane compositore attivo sulla scena romana degli anni Settanta, entrare in contatto con questi grandi artisti non significava solo limitarsi a cogliere ogni possibile opportunità per imparare qualcosa da loro, ma anche condividere nel profondo le inquietudini e le tensioni che animavano la loro ricerca espressiva. In quel periodo la vita musicale romana ruotava intorno alle iniziative organizzate dall’associazione Nuova Consonanza: concerti, seminari, dibattiti, ma anche momenti di sperimentazione e creatività collettiva, grazie alle attività del Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 507 A COLLOQUIO CON ALESSANDRO SBORDONI DI Susanna Pasticci NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 507 Gruppo di Improvvisazione di cui Sbordoni entrò a far parte nel 1977. Nel corso degli anni Ottanta, segnati dalla progressiva scomparsa dei maestri della generazione precedente, Sbordoni si trovò a raccogliere la loro eredità, continuando ad animare le ricerche del Gruppo di Improvvisazione e assumendo, a più riprese, la direzione di Nuova Consonanza. Come insegna la parabola dei talenti, tuttavia, per valorizzare un’eredità non basta limitarsi a conservarla, ma bisogna anche saperla mettere a frutto, facendo interagire il patrimonio di idee, modelli e comportamenti del passato con un presente estetico in continua e rapida trasformazione. Pochi compositori, come Sbordoni, hanno saputo mantenere un occhio sempre vigile sul mondo che cambia, accogliendo le sollecitazioni del contemporaneo come un’occasione per rimettere continuamente in discussione le motivazioni più profonde del suo agire musicale. Il senso della sua esperienza artistica va ricercato probabilmente nello sforzo di trovare un equilibrio, sempre instabile e mutevole, tra due direzioni all’apparenza inconciliabili: da un lato, la fedeltà ad alcuni nuclei di fondo, legati alla sua formazione nel contesto romano degli anni Settanta; dall’altro, la capacità di cogliere ogni possibile occasione di confronto con altri sintomi, indizi e tensioni di volta in volta presenti sulla scena del suo presente estetico. Non è facile interrogare il presente senza adeguarsi alle sue pretese, o allinearsi alle tendenze dominanti; ma non è facile neppure sfuggire alla tentazione di rifugiarsi, come tanti compositori delle ultime generazioni, nella nostalgia del passato o nel vagheggiamento di un ipotetico futuro da costruire ex-novo. In questo contesto Sbordoni ha saputo destreggiarsi con grande pacatezza ed equilibrio, portando avanti una linea di ricerca sempre coerente con le sue radici; senza mai trincerarsi, di fronte agli ostacoli che questa scelta necessariamente comporta, in una torre d’avorio dalle mura solide e confortanti, ma totalmente impermeabile alle sollecitazioni della realtà circostante. Non si può fare a meno di ravvisare, in questa linea di condotta, la presenza di una forte componente etica: laddove per etica si intenda non tanto una forma di moralismo, o la possibilità di definire una scala di valori e di norme prescrittive, ma semmai la tendenza a mettere in discussione la propria soggettività per definire uno spazio d’azione attraverso un confronto dialettico con l’altro da sé. Si tratta, a ben guardare, di un atteggiamento molto diverso da quello che caratterizza tanta parte dell’esperienza della musica contemporanea, che troppo ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 508 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 508 spesso ha giustificato la sua incapacità di comunicare con il pubblico, e dunque di farsi interprete delle istanze del proprio tempo, in nome dell’esigenza di trasmettere un messaggio più elevato ma di difficile comprensione, e dunque destinato ai posteri. Non possiamo dimenticare che l’immagine dell’artista come profeta di verità, che Schönberg ha lasciato in eredità ai musicisti del XX secolo, ha determinato un vero e proprio ribaltamento del rapporto tra etica ed estetica: tutta la musica animata da una forte componente ideologica, che non riusciva a trovare una legittimazione sul piano estetico, poteva sempre e comunque rivendicare una sua giustificazione e ragion d’essere sul piano morale. La vocazione etica che anima la ricerca espressiva di Sbordoni non ha alcun rapporto con questo retaggio moralistico, ma si qualifica come un’attitudine ad attivare un rapporto di scambio, condivisione e partecipazione con la comunità dei suoi ascoltatori. Il vero nodo interpretativo da sciogliere, di fronte a un artista che sceglie di operare in questa direzione, è legato alla possibilità di verificare come questo atteggiamento possa poi effettivamente tradursi nella pratica musicale concreta. La strada della musica contemporanea è lastricata di buone intenzioni, manifesti poetici e programmi ideologici che spesso hanno fatto perdere di vista la concretezza del dato sonoro, che rappresenta invece un tratto ineludibile dell’esperienza musicale. Solo entrando nel merito dell’artigianato formale di Sbordoni, delle sue scelte espressive e del suo modo tutto particolare di affrontare la ricerca sul suono, diventa possibile comprendere la forza propulsiva della sua vocazione etica, ma anche la sua capacità di mettere a frutto, in modo originale e produttivo, certe istanze poetiche maturate nell’ambiente musicale romano. Per approfondire questi aspetti abbiamo pensato di coinvolgere il Maestro in una conversazione sulla sua musica e sul suo operato artistico; nella convinzione che la sua diretta testimonianza possa aiutarci non solo a comprendere meglio la sua attività e le sue motivazioni poetiche, ma anche ad avviare una più ampia riflessione sullo statuto di identità della musica contemporanea, la sua vocazione culturale e il suo ruolo sociale. SUSANNA PASTICCI: All’inizio degli anni Ottanta Luigi Pestalozza descriveva la tua esperienza musicale come il risultato di una forte tensione dialettica tra improvvisazione e costruttività1. A differenza di gran parte dei compositori attivi sulla scena dell’epoca, infatti, la tua ricerca espressiva si muoveva su due binari paralleli: da un lato la tua 1 «Per la musica di Sbordoni mi viene da dire “bisogno della costruzione”. Ma anche, subito, “bisogno dell’improvvisazione”. […] Non si improvvisa se non si ha un forte senso costruttivo »; LUIGI PESTALOZZA, Note di copertina di un disco monografico dedicato ad opere di Alessandro Sbordoni (Deux, Le parole del silenzio, Les echos et les ombres, Tellus, Parole e oltre), Edipan PRC S20-26 (1985). Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 509 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 509 attività di compositore-performer nel Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, dall’altro il tuo lavoro come autore di partiture scritte. Le tue ultime incisioni discografiche documentano che ancor oggi questo duplice orizzonte di interessi – improvvisazione e composizione – costituisce il tratto peculiare e distintivo della tua attività di ricerca2. Come è possibile conciliare due condotte musicali che – almeno apparentemente – risultano così diverse tra loro? ALESSANDRO SBORDONI: Partiamo dall’inizio, e cioè dalla mia esperienza nel Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, che Franco Evangelisti aveva fondato a Roma nel 1964. Mi sembra giusto partire da qui perché questa esperienza mi ha dato la possibilità di maturare un rapporto con la musica completamente diverso da quello di molti altri colleghi della mia generazione. Entrai a far parte del gruppo nel 1977; all’epoca ero un giovane compositore appena diplomato, e anche un po’ disorientato, e all’improvviso mi trovai catapultato in un laboratorio collettivo in cui non si ragionava più in termini di note, ma si faceva una ricerca sul suono e con il suono, inteso nella sua accezione più materica e concreta. Non si lavorava su suoni preformati, codificati dalle abitudini; e bisognava anche rispettare delle regole ben precise, dal momento che Evangelisti tendeva ad assumere il ruolo di ‘vestale’ del linguaggio informale e post-seriale – a volte bastava suonare una terza maggiore o un’ottava per correre il rischio di essere passati per le armi! Al di là delle sue intemperanze, delle litigate e delle infinite discussioni che animavano le prove, all’interno del gruppo c’era una situazione particolarmente bella e vitale: non solo dal punto di vista delle relazioni umane tra persone con cui si stava bene, si andava a cena o si organizzavano concerti, ma anche per il nuovo rapporto con la musica che cercavamo di condividere e sperimentare insieme. Questa esperienza ha lasciato un segno profondo sulla mia concezione del far musica; anche se all’epoca non me ne rendevo conto, e ne sono divenuto consapevole solo in un secondo momento. S.P.: Come si svolgevano le sedute di improvvisazione? C’era una fase di programmazione iniziale, in cui si concordava un materiale di partenza o una traccia da seguire? Si sceglieva un insieme di suoni, un’idea timbrica, un’immagine grafica, o magari addirittura uno spunto contenutistico di natura extramusicale? A.S.: No, non c’era nessun tipo di sollecitazione esterna: l’improvvisazione era concepita solo ed esclusivamente in termini 2 ALESSANDO SBORDONI, Sirius, CD Stradivarius 33905 (2011); ROBERTO FABBRICIANI-ALESSANDRO SBORDONI, Forme d’aria, CD VDM 3855025 (2012). ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 510 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 510 di lavoro sul suono e di controllo dei parametri. Durante le prove si facevano degli esercizi preparatori, come ad esempio un esercizio di esplorazione del piano: tutti potevano fare qualunque cosa con il loro strumento, a condizione che ogni gesto creativo fosse volto alla sperimentazione delle infinite possibilità del piano. C’erano poi gli esercizi di cognizione del tempo: si stabiliva una durata, ad esempio di uno o due minuti, e si suonava senza guardare l’orologio, sforzandosi di esercitare un controllo sul tempo oggettivo. O ancora, gli esercizi di ‘alfabetica’ in cui ognuno di noi, a turno, lanciava un’idea sonora, e gli altri dovevano interagire; altri aspetti delle nostre sedute di improvvisazione vengono descritti anche da Evangelisti nel suo libro3. Questo lungo lavoro preliminare ci consentiva di mettere a punto una sorta di partitura ‘orale’, che rappresentava la traccia su cui poi si basavano le improvvisazioni che realizzavamo nei concerti. Gli esercizi che si facevano durante le prove erano particolarmente interessanti proprio perché ti mettevano in rapporto con i parametri della musica in maniera attiva, con un approccio completamente diverso da quello del compositore che si mette a scrivere a tavolino, sulla carta, e lavora con elementi già predisposti. Grazie a questa palestra di improvvisazione ho imparato a prestare attenzione alle cose più semplici, ai minimi dettagli: e il fatto di dover realizzare un’idea musicale estemporaneamente, creando una situazione di feed-back con gli altri componenti del gruppo, mi ha lasciato in eredità una disciplina di controllo del suono, e soprattutto una capacità di interagire creativamente con i contesti sonori, che non avrei potuto conseguire solo attraverso la pratica della scrittura. S.P.: Mi sembra di capire che la tua esperienza con il gruppo di improvvisazione abbia esercitato un’influenza profonda anche sugli orientamenti della tua attività compositiva. A.S.: All’epoca, per un giovane esordiente come me, l’improvvisazione ha rappresentato la migliore scuola di composizione possibile: innanzitutto perché mi ha insegnato a manipolare il suono nella sua plasticità reale, e non solo in una dimensione astratta mediata dalla notazione e dalla scrittura. In secondo luogo perché mi ha insegnato a liberare la mia immaginazione creativa in un contesto performativo in cui la possibilità di interagire con gli altri musicisti presuppone un’alto grado di disciplina, concentrazione e autocontrollo: una palestra straordinaria, che mi ha permesso di maturare un esercizio più pieno 3 FRANCO EVANGELISTI, Sviluppo e significato della musica aleatoria: dalla forma momentanea al Gruppo di Improvvisazone, in Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro, Roma, Semar, 1991, pagg. 63-74. Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 511 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 511 e consapevole della mia creatività. In definitiva, la mia esperienza con l’improvvisazione è stata importante in sé, ma è diventata ancor più importante quando ho cominciato a scrivere delle partiture, perché a quel punto avevo già interiorizzato l’esigenza di pensare la musica in termini di sonorità plastiche e materiche, che potevo cercare di realizzare anche attraverso la scrittura. S.P.: L’attività del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza si conclude alla metà degli Ottanta, poco dopo la scomparsa di Evangelisti; il contesto musicale subisce una profonda trasformazione rispetto ai decenni precedenti, grazie al proliferare di nuove tensioni e istanze poetiche. Per molti anni ti dedichi esclusivamente all’attività compositiva finché, nel 2002, decidi di tornare a praticare l’improvvisazione fondando il Gruppo Progetto AleaNova. Quali motivazioni ti hanno portato a riscoprire il valore di questa esperienza, a distanza di tanto tempo? A.S.: Nel Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza ero un giovane esordiente, e non avevo alcuna possibilità di prendere delle iniziative autonome o di esercitare un controllo teorico sulle attività di un gruppo di persone che, lavorando insieme da molti anni, avevano già consolidato un protocollo d’azione molto ben strutturato e definito. Mi sono immerso in questa situazione e l’ho semplicemente vissuta, con pienezza ed entusiasmo, ma tutto sommato in modo abbastanza inconsapevole: ricevevo delle istruzioni e le mettevo in pratica senza pormi troppe domande, perché così mi veniva detto di fare. Negli anni Novanta, invece, dopo essermi dedicato per molto tempo solo alla composizione scritta, mi sono ricordato dell’esperienza del Gruppo di Improvvisazione, della sua straordinaria forza propulsiva e della sua vivacità, e ho sentito l’esigenza di riprenderla, come se si trattasse di un’esigenza vitale. Ho cominciato dapprima a lavorare con i miei allievi, organizzando un corso di improvvisazione al Conservatorio di L’Aquila. All’inizio cercavamo di mettere in pratica le stesse procedure che avevo sperimentato con il gruppo di Nuova Consonanza, anche perché quella era l’unica prassi improvvisativa di cui avevo avuto una conoscenza diretta. Lavorando con musicisti di altre generazioni che avevano maturato esperienze diverse dalla mia, tuttavia, ben presto ho cominciato a rendermi conto che c’era anche dell’altro. Al di là delle sollecitazioni che mi venivano dagli allievi del mio corso, il rapporto con giovani musicisti ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 512 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 512 come Daniele Del Monaco, Igor Fiorini e Giovanni Guaccero, con cui ho fondato il gruppo AleaNova, è stato determinante per gli sviluppi della mia ricerca. E così ho sentito sempre più forte il bisogno di approfondire la questione muovendomi in una duplice prospettiva: da un lato la ricerca e la sperimentazione di una nuova prassi dell’improvvisazione; dall’altro la riflessione teorica, che mi ha portato ad occuparmi anche dell’estetica e della filosofia dell’improvvisazione. S.P.: Come si differenzia la ricerca di AleaNova rispetto a quella del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza? A.S.: In realtà non abbiamo mai abbandonato completamente le pratiche di improvvisazione libera di Nuova Consonanza; tuttavia, esse hanno rappresentato solo uno degli aspetti della ricerca di AleaNova. La differenza più importante è che con AleaNova abbiamo sentito l’esigenza di articolare il nostro lavoro anche sulla base di una traccia scritta, eseguendo delle vere e proprie partiture aleatorie riprese dal repertorio o scritte appositamente da noi, uscendo quindi da una dimensione puramente aurale della prassi improvvisativa; parallelamente, abbiamo sviluppato anche un consistente lavoro di improvvisazione sul visivo. Nel 2004, ad esempio, abbiamo realizzato una partitura aleatoria di Ennio Morricone, Multipla, che abbiamo poi eseguito in concerto per sonorizzare dal vivo il film Die Puppe (La bambola di carne) di Ernst Lubitsch. Anche se al momento non attivo, AleaNova rimane comunque un progetto in fieri, che potrebbe essere riutilizzato in altre occasioni. S.P.: Hai detto che la ricerca di una nuova prassi improvvisativa, a partire dagli anni Novanta, ti ha portato a maturare anche una riflessione di tipo teorico su questi temi; vuoi approfondire meglio questo aspetto? A.S.: In un primo momento la mia riflessione teorica è nata dall’esigenza di spiegare ai miei allievi che cos’è l’improvvisazione; questo mi ha costretto a documentarmi, e soprattutto a interrogarmi sul funzionamento dei processi e dei circuiti comunicativi. Il convegno sull’improvvisazione organizzato da Nuova Consonanza nel 2012, di cui ho curato la preparazione scientifica, è il punto di arrivo di questo percorso, perché ha evidenziato non solo il carattere interdisciplinare dell’improvvisazione, ma soprattutto la sua natura multidisciplinare4. 4 Trans-improvvisazione! L’improvvisazione nel panorama musicale contemporaneo: uno sguardo al futuro, giornata di studi nell’ambito del Convegno Internazionale The Cage After, organizzato da Nuova Consonanza in collaborazione con la Fondazione Cini e la Fondazione Isabella Scelsi, Roma, 22-24 novembre 2012. Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 513 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 513 L’improvvisazione non è solo una pratica comune a varie civiltà musicali molto diverse tra loro, ma è un modello di pensiero che esula dall’ambito prettamente artistico e investe qualunque attività umana. Il compositore che improvvisa ‘esplode’, diventa mondo, e si rende conto che quello che fa è qualcosa che appartiene all’umanità, all’uomo in quanto tale. Nell’essere compositore in questo modo, e cioè improvvisando in modo consapevole con altri, l’artista si mette sullo stesso piano di un medico, di un musicoterapeuta, di qualsiasi persona che lavora, e l’improvvisazione diventa una sorta di pratica liberatoria che permette di superare la ripetitività e di migliorare la produttività. È evidente che questa prospettiva apre dei discorsi di portata notevole: ma la cosa più importante, che ci tengo a sottolineare con forza, è che sono arrivato a queste conclusioni dall’interno della musica, e non da un interesse di tipo sociologico. Facendo musica in un certo modo, ho cominciato a capire che stavo svolgendo un’attività che può assumere diverse connotazioni e attitudini, a seconda del contesto in cui viene esercitata. Se sei un compositore realizzi un pezzo di musica, se sei un operaio costruisci una macchina e se sei un medico puoi guarire una persona. S.P.: Da quello che dici, sembra quasi di capire che consideri l’improvvisazione e la composizione come due universi dai confini piuttosto sfumati, o comunque non chiaramente distinti e distinguibili. A.S.: Dal mio punto di vista, il pensiero che alimenta la pratica dell’improvvisazione è lo stesso che alimenta la pratica della composizione. Il problema è che normalmente si tende a considerare l’improvvisazione come un qualcosa di estemporaneo, aleatorio, se non addirittura arbitrario; mentre invece per me non è così. L’improvvisazione è un pensiero organizzato, consapevole di quello che sta facendo, e cioè delle regole che sta mettendo in pratica e dei materiali che utilizza per mettere in pratica queste regole, esattamente come il pensiero compositivo. Tutto questo avviene però in maniera dinamica ed estemporanea: proprio come due persone, parlando tra loro e utilizzando un codice e delle regole precise, non si diranno solo delle cose prevedibili o già dette. Qualunque situazione comunicativa, organizzata in modo complesso, è regolata dall’interazione di vari livelli dinamici che garantiscono un certo margine di imprevedibilità. Nel momento in cui si immagina il lavoro del compositore come un processo aperto, diventa possibile metterlo ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 514 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 514 sullo stesso piano di qualunque altra attività umana. L’artista, nella nostra cultura, è spesso considerato un visionario astratto e cervellotico, una persona che vive ai margini della realtà, e molti artisti aderiscono più o meno consapevolmente a questo modello. Se noi invece entrassimo nell’ordine di idee che la creatività immaginativa è parte fondante della coscienza pratica di qualunque persona, e che dunque dovrebbe essere a tutti i costi sostenuta e incrementata in ogni attività umana, allora tutto diventa arte. Se un medico non riesce a curarti bene non è solo perché è incompetente, ma probabilmente anche perché non riesce ad essere abbastanza ‘immaginativo’. Per quanto riguarda il mio lavoro, vorrei arrivare a dire che io improvviso anche quando compongo una partitura per orchestra. Scrivere Sirius, il mio Concerto per bayan e orchestra (2009), è stato come fare un’improvvisazione: solo che in quel caso ho fatto un’improvvisazione tra me e me. Sia quando si improvvisa, sia quando si scrive una partitura da far suonare a qualcun altro, bisogna fissare in anticipo dei punti di partenza ed esercitare un forte autocontrollo sulle proprie scelte. Il procedimento è esattamente lo stesso: di conseguenza, io penso che composizione e improvvisazione non siano due attività, ma piuttosto due modi di strutturare il pensiero musicale che si collocano su un unico asse continuo. Ovviamente, nell’esercizio della prassi concreta occorre saper applicare di volta in volta delle tecniche diverse e specifiche; proprio per questo sono particolarmente contento di essere sempre riuscito a fare sia una cosa che l’altra. S.P.: Negli ultimi anni, dopo l’esperienza di AleaNova, hai cominciato a lavorare sull’improvvisazione anche con altri musicisti come Roberto Fabbriciani, con cui nel 2012 hai realizzato il disco Forme d’aria. Quali sono le caratteristiche che cerchi nei ‘compagni di viaggio’ con cui decidi di intraprendere un percorso di ricerca sull’improvvisazione? A.S.: Innanzitutto il fatto che siano interessati alla possibilità di lavorare creativamente con suoni non trattati in modo convenzionale. Il mio modo di concepire l’improvvisazione non è facilissimo da realizzare, e in questo senso Roberto Fabbriciani è stato una vera e propria scoperta. Per poter lavorare in un certo modo, la relazione tra le persone spesso diventa più importante delle relazioni tra le note; se Mozart cercava ‘due note che si amino’, è evidente che nel mio caso la possibilità di creare un’unione felice, dal punto di vista del risultato sonoro, dipende anche dall’eventualità di stabilire una profonda sintonia Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 515 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 515 con i musicisti con cui collaboro. Il mio incontro con Fabbriciani è stato un vero e proprio ‘colpo di fulmine’: Roberto è un artista molto versatile, che aveva già maturato una grande esperienza sia nel campo dell’improvvisazione sia in quello della ricerca sul suono. Dal punto di vista creativo il nostro rapporto si configura come uno scambio a 360 gradi, con un livello di sintonia che prima di lui avevo potuto trovare solo con Franco Evangelisti. S.P.: Come si svolgono le vostre sedute di improvvisazione, e quali sono gli aspetti che differenziano questa tua esperienza con Fabbriciani rispetto a quelle precedenti? A.S.: Con Roberto abbiamo lavorato su un’idea di improvvisazione totalmente libera, e cioè suonando, registrando e riascoltando quello che avevamo realizzato, ma senza mai prendere nessun tipo di accordo preliminare. Le nostre Forme d’aria nascono semplicemente dall’atto di far musica insieme: ci siamo lasciati guidare solo dalla centralità del suono, dal corpo del suono che a poco a poco diventa concretezza e forma sonora. La trama musicale nasce dal continuo flusso di idee e dalla mobilità dell’interazione istantanea tra musicisti: partendo dal presupposto che solo nell’atto della performance la struttura musicale può abbracciare la corporeità del suono e la temporalità del flusso sonoro come parti integranti di una complessa rete di relazioni inerenti il significato musicale. A questo ‘atto’ di spontaneità primordiale segue però un grande lavoro di affinamento e di perfezionamento, di ‘ritorno’ sul già fatto sia in senso strettamente musicale-performativo sia come riflessione teorico-operativa, da cui viene ‘scremata’ una serie di ‘abitudini’, ritenute come le più interessanti. Solo da queste, dopo un lavoro a volte anche abbastanza lungo e impegnativo di elaborazioni e rielaborazioni, nasce infine quella che può considerarsi la versione ultimativa del pezzo; che comunque poi, in sede di concerto, viene eseguita in modo aperto e performativo, appunto come una ‘improvvisazione’. Come vedi l’improvvisare è un atto veramente complesso, se lo si deve considerare come frutto di un’attività formante e immaginativa allo stesso tempo, senza però privarlo di quelle caratteristiche di estemporaneità e freschezza che lo rendono un ‘gioco’ davvero avvincente. Un’altra importante differenza rispetto al lavoro col Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, ma anche rispetto ad AleaNova, consiste nel fatto di lavorare su ‘modelli’ ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 516 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 516 invece che su ‘schemi’. Come dicevo prima, il lavoro sui parametri o sull’ordine delle entrate costituisce uno schema operativo, che innesca il processo improvvisativo ma non lo controlla. Lavorare su ‘modelli’ invece comporta un attento controllo del pensiero improvvisativo nel corso del suo farsi: se decido di improvvisare sul modello ‘tango’, ad esempio, dovrò lavorare per tutto il pezzo attorno ad un elemento riconoscibile, che potrò realizzare però secondo tantissime varianti diverse. Uno schema è qualcosa di fisso e meccanico, un modello è invece aperto e dinamico. Il discorso sarebbe molto complesso, mi limito qui ad accennarlo. C’è poi da ricordare un altro elemento importante, e cioè il contributo dell’elaborazione elettronica realizzata da Alvise Vidolin. Alvise è intervenuto solo in un secondo momento, quando io e Roberto avevamo già consolidato la nostra prassi di ricerca e avevamo messo a punto una serie di materiali e procedimenti. Gli abbiamo chiesto di predisporre un sistema di live electronics per elaborare la spazializzazione e la movimentazione del suono, ma anche la rapidità e la frequenza delle accumulazioni. Con il contributo di Alvise in realtà siamo diventati un trio, perché sia nella realizzazione del disco che nelle nostre performances concertistiche la sua presenza si qualifica a tutti gli effetti come quella di un terzo esecutore, il cui apporto consiste nel dare al suono una ‘presenza’ nello spazio: e cioè una dimensione ‘avvolgente’ dell’ascoltare, che a mio parere è la vera e importante innovazione introdotta dai mezzi elettroacustici rispetto alla vecchia dimensione dell’ascolto, soltanto frontale, del teatro o del concerto tradizionali. La mia speranza è che da questo primo nucleo, che ormai ha consolidato una prassi abbastanza definita, possa nascere un’esperienza più ampia in grado di coinvolgere in futuro anche altri musicisti. S.P.: Parliamo ora della tua attività di compositore, del tuo metodo di lavoro e delle tue tecniche artigianali; come nasce il progetto di un nuovo pezzo? A.S.: Fin dall’inizio della mia carriera ho deciso di fare delle scelte molto precise. La prima – che oggi può sembrare scontata, ma negli anni Settanta non lo era affatto – è stata quella di utilizzare solo i dodici suoni della scala temperata. All’epoca era una scelta abbastanza coraggiosa, perché mentre gran parte dei miei colleghi lavorava sulla microtonalità o sui cluster, il principale punto di riferimento della mia ricerca era rappresentato Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 517 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 517 invece dall’universo cromatico. Utilizzo il termine ‘universo’ sulla falsariga del concetto di ‘spazio sonoro’ proposto da Sofija Gubajdulina5, che distingue tre possibili spazi sonori – cromatico, diatonico, microtonale – rispetto ai quali io aggiungerei anche un quarto universo, quello acusmatico (preferisco parlare di ‘universi’, anziché di ‘spazi’, perché schiudono mondi davvero incommensurabili tra loro, anche se accostabili in un lavoro compositivo o performativo). Il lavoro della Gubajdulina mi interessa moltissimo, perché riesce a muoversi con grande disinvoltura nell’ambito di questi contesti stilistici, e a volte anche a fondere diversi universi all’interno di uno stesso pezzo, come nel caso di Seven words per fisarmonica, violoncello e orchestra d’archi, in cui ogni strumento assume una precisa funzione simbolica associata a un particolare universo sonoro. S.P.: Trovo abbastanza singolare questa tua iniziale predilezione per l’universo cromatico. A rigor di logica la tua esperienza con il Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza avrebbe dovuto condurti in una direzione completamente diversa. Come hai spiegato prima, infatti, la vostra ricerca era rivolta soprattutto alla sperimentazione di nuove sonorità, diverse da quelle dalla scala temperata e spesso ottenute anche attraverso un impiego non convenzionale degli strumenti tradizionali. A.S.: Questo ti dà la misura di come, all’inizio della mia carriera compositiva, io abbia vissuto l’esperienza dello scrivere musica a tavolino come un’attività completamente diversa rispetto a quella di performer-improvvisatore. Solo in seguito, col passare degli anni, ho cominciato a capire che in realtà si trattava di due aspetti complementari della mia attività musicale, e che non c’era alcuna differenza tra i processi di pensiero che attivavo nel momento in cui mi dedicavo all’improvvisazione o alla composizione. Ma questo l’ho capito solo più tardi, quando mi sono reso conto che la compresenza di queste due linee di ricerca non rappresentava un elemento di frattura all’interno della mia personalità artistica. Solo nel momento in cui ho acquisito piena consapevolezza di questa continuità ho cominciato a comprendere che essa era diventata l’elemento qualificante della mia identità artistica, e dunque del mio particolare modo di far musica. Tornando agli inizi della mia attività compositiva, la decisione di circoscrivere il mio ambito d’azione all’universo 5 AAVV, Gubajdulina, a cura di Enzo Restagno, Torino, EdT, 1991, pag. 65. ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 518 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 518 cromatico mi ha portato a mettere a punto un sistema armonico che ho utilizzato per più di trent’anni, e che continuo a usare ancora oggi. Si tratta di un sistema derivato dalla serie del Concerto op. 24 di Anton Webern, che ho elaborato in modo tale da ottenere una successione di quattro accordi di tre note che, presi nel loro insieme, esauriscono il totale cromatico. Ho utilizzato questo sistema fin dal mio primo pezzo, Le parole del silenzio per pianoforte, dedicato a Giuseppe Scotese (1981), dove ho potuto sperimentare le potenzialità della sua forma-base; successivamente ho cominciato a giocare con le trasposizioni, le sovrapposizioni e i rivolti, e mi sono reso conto che questo sistema poteva dar vita a una proliferazione di materiali davvero sorprendente. Ancora oggi, dopo tanti anni, questo metodo di lavoro mi soddisfa pienamente: quando devo scrivere un pezzo so esattamente da dove cominciare, e non provo mai quel senso di smarrimento iniziale che affligge tutti quei compositori che decidono di reinventarsi un nuovo sistema per ogni nuovo pezzo. D’altra parte, il mio modello armonico mi permette di controllare tutti gli aspetti dell’elaborazione compositiva: e cioè non solo gli accordi, ma anche l’aspetto melodico e l’articolazione contrappuntistica. Ad esempio, il mio pezzo Angelus novus per orchestra (1985) si configura come una complessa trama contrappuntistica che nasce dalla sovrapposizione di frammenti melodici derivati dal mio sistema armonico. S.P.: Come si concilia questa tua predilezione per l’universo cromatico con il tuo interesse per la musica della Gubajdulina, che hai detto di apprezzare soprattutto per la sua capacità di fondere diversi universi sonori all’interno di uno stesso pezzo? A.S.: Nella mia attività di performer ho già ampiamente avuto modo di sperimentare la possibilità di integrare l’universo cromatico con quello acusmatico e microtonale. Per quanto riguarda la composizione, tuttavia, sono stato sempre contrario all’uso dei microtoni, per lo meno nell’accezione contemplata da Schönberg nel suo Manuale d’armonia, che considera i microtoni come dei veri e propri intervalli ottenuti attraverso ulteriori suddivisioni del semitono. Trovo che questo approccio sia completamente sbagliato: inventare un nuovo sistema musicale basato su divisioni dell’ottava diverse da quella convenzionale, come hanno cercato di fare vari autori (tra cui Stockhausen), è un fatto puramente scientifico, Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 519 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 519 che non ha nulla di musicale. Da qui nasce l’importanza di Scelsi, che ha capito che il modo migliore per incrementare il materiale a disposizione della composizione è quello di considerare i microtoni non tanto come degli intervalli discreti, ma piuttosto come fattori di mobilità che permettono di uscire e rientrare dai suoni tradizionali, conferendogli nuova profondità e tensione. L’esempio di Scelsi mi ha dato modo di integrare nella mia scrittura anche l’universo microtonale: ma si tratta di una conquista abbastanza recente, di cui sono particolarmente grato a Scelsi. Anche se nel corso degli anni Ottanta ho avuto modo di conoscerlo e di frequentarlo con una certa assiduità, in realtà la musica che componevo a quell’epoca era molto diversa dalla sua; solo molti anni dopo ho cominciato a riflettere sulla complessità delle dinamiche che regolano il rapporto tra improvvisazione e composizione, e dunque anche a capire meglio la portata della figura di Scelsi. In ogni caso, tutte le opere che ho scritto dal 1981 alla fine degli anni Novanta sono composte con il sistema armonico che ho descritto prima, che rappresenta il filo conduttore della mia attività compositiva su cui oggi vanno a innestarsi, eventualmente, anche gli altri universi sonori. S.P.: In effetti, uno dei dati più significativi che emerge dall’esperienza di ascolto della tua musica è la presenza di una forte continuità stilistica. Anche se la tendenza ad organizzare le altezze in base a un sistema armonico definito è una condotta abbastanza diffusa nella musica contemporanea, gran parte degli autori tende spesso a reinventare un nuovo sistema per ogni nuovo pezzo. La tua scelta di rimanere sempre fedele a uno stesso sistema armonico mi sembra invece molto importante, perché permette di conferire alla tua musica uno statuto di identità molto forte anche in termini di qualità sonora6. A.S.: Sicuramente si è trattato di una scelta molto precisa, perché sono convinto che un compositore debba avere innanzitutto un suo proprio suono. Trovo anche estremamente sbagliata l’idea, molto diffusa nell’ambito dell’avanguardia, secondo cui ogni pezzo deve essere diverso da quello precedente. D’altra parte il mio sistema armonico è estremamente versatile, e mi permette sempre di dosare le cose a piacimento, a seconda delle circostanze: posso sovrapporre i miei accordi per ottenere sonorità complesse ma anche filtrarli, per ritagliare sonorità più rarefatte e consonanti. 6 SUSANNA PASTICCI , Alla ricerca del suono perduto, in «Musica/Realtà», 99 (2012), pp. 5-13. ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 520 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 520 S.P.: Immagino che l’utilizzo di questo sistema ti permetta anche di ridimensionare la portata del cosiddetto lavoro ‘precompositivo’, che spesso nella musica contemporanea consiste nell’elaborazione di schemi, successioni ritmiche o griglie di vario genere; e che magari il processo creativo delle tue opere sia caratterizzato invece dalla produzione di schizzi e abbozzi di tipo più tradizionale, come quelli che venivano realizzati dai compositori del passato. A.S.: Più che fare schizzi o abbozzi, in realtà questo sistema mi permette soprattutto di improvvisare: è stata questa la mia esigenza principale, fin dall’inizio. Anche se nel primo periodo della mia attività ho vissuto il passaggio dall’improvvisazione alla composizione come una frattura, a posteriori mi sono reso conto di essermi costruito questo sistema proprio perchè mi permetteva di improvvisare componendo. E così mi sono salvato dalla nevrosi della pagina bianca, ma anche dal dover passare – come mi ha confessato una volta un amico compositore – tre giorni su due battute. Se mi capitasse una cosa del genere preferirei buttare via tutto, perché vuol dire che c’è qualcosa che non va. Il problema, secondo me, è che anche il comporre deve possedere una sua spontaneità: non dico che debba essere declinato in tempo reale, perché ovviamente occorre un certo margine di tempo per scrivere, pensare, strutturare. Ma in ogni caso, se il lavoro arriva a un punto di stallo perché non sai più che nota scrivere, allora significa davvero che la musica è finita. S.P.: Nel corso di questa conversazione hai sottolineato più volte che il processo che oggi ti porta a scrivere un pezzo di musica non è molto differente da quello che ti porta ad improvvisare con altri musicisti, se non nei termini di una diversa operatività. Mi chiedo, tuttavia, in che modo questa continuità possa riflettersi anche sul piano dell’ascolto. A.S.: Non so, questo bisognerebbe chiederlo ai miei ascoltatori… S.P.: Proviamo a fare un esempio concreto. Nel tuo disco Sirius c’è un pezzo per clarinetto basso e bayan (Virgo, 2003) che ha un organico molto simile a quello delle tue improvvisazioni con Fabbriciani, e che dunque può rappresentare un buon termine di paragone. Mi sembra che dal punto di vista dell’esperienza d’ascolto emergano alcune differenze significative, soprattutto in termini di articolazione formale. Le tue improvvisazioni risultano più Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 521 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 521 compatte: c’è un’idea di base molto chiara, che viene esplorata in una dimensione materica giocata su parametri, volumi e superfici. Tutto questo accade anche nel pezzo scritto, dal quale tuttavia emerge una dimensione temporale più discontinua, modulata su una maggiore varietà di stati espressivi; mentre invece, quando improvvisi, l’idea della dialettica formale diventa più sfumata e tende a lasciare spazio a un maggiore continuità. A.S.: Certo, quando scrivo un pezzo l’esigenza di articolare il discorso sul piano formale diventa molto più forte, anche perché il processo creativo si dispiega in un arco temporale di vari giorni, ed è segnato da continue interruzioni. Nell’estemporaneità dell’improvvisazione, invece, l’atto creativo abbraccia solo quei quindici, trenta minuti in cui avviene la performance. Di conseguenza, o le persone che suonano insieme si accordano in anticipo sul fatto che a un certo punto si deciderà di fare uno stacco netto, oppure è molto difficile che questa eventualità possa verificarsi da sola. In altre parole, il pensiero estemporaneo è una dimensione che si evolve in maniera compatta, e in cui un’articolazione formale può esistere solo se lo si decide a priori. Sono perfettamente consapevole di queste differenze sul piano dell’articolazione del tempo e della forma, e sono felice che tutto questo si rifletta chiaramente anche nell’esperienza di ascolto. Tuttavia, io continuo a coltivare una mia personale utopia: e cioè la possibilità che un giorno, casualmente, novanta persone si ritrovino insieme in una sala e, ‘improvvisando’, venga fuori la Quinta Sinfonia di Beethoven. Ovviamente è un’ipotesi assurda, impossibile. Però può farti capire che cosa intendo per improvvisazione: un pensiero sì estemporaneo, sì gestito sul momento, però assolutamente strutturato e consapevole della sua formatività mentre avviene. Quando scrivi una partitura, e magari ti interrompi e la riprendi il giorno dopo, la guardi dal di fuori, come un pittore che guarda la sua tela; ciò che si improvvisa, invece, non si può mai guardare dall’esterno. L’utopia sarebbe quella di raggiungere nell’improvvisazione lo stesso livello di formatività consapevole che il compositore è in grado di conseguire sulla carta; tale livello di formatività dovrebbe essere raggiunto in maniera estemporanea e dal vivo, e per di più in interrelazione con altre persone, integrando la dimensione orizzontale dell’intersoggettività con quella verticale. Una vera utopia!… o una profezia? ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 522 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 522 S.P.: Che cosa intendi, esattamente, per dimensione orizzontale e verticale? Immagino che tutto questo sia legato a un altro aspetto del tuo lavoro a cui accennavi prima, e cioè alle tue ricerche nell’ambito dell’estetica dell’improvvisazione. A.S.: Negli ultimi tempi la mia concezione dell’improvvisazione è stata fortemente influenzata da alcune letture filosofiche, e in particolare dall’Estetica di Luigi Pareyson e dagli scritti di Johann Gottlieb Fichte. Osservando la coscienza umana, Fichte si rende conto che la nostra coscienza non è un orologio, una macchina, ma un meccanismo vivente che si modifica nell’atto stesso in cui si costituisce. È questo l’aspetto più avvincente della sua Dottrina della scienza, che come compositore mi interessa proprio perché investe la possibilità di cogliere il funzionamento della coscienza nel suo dinamico attuarsi. Fichte parte dal presupposto che il rapporto tra l’uomo e il mondo non è un rapporto di separazione, dal momento che essere umano e mondo sono una cosa sola. In altri termini, la distinzione tra soggetto e oggetto non è un attributo della realtà, ma una necessità della coscienza dell’Io che, per poter conoscere e articolare un discorso, è obbligato ad operare questa scissione, attribuendo ad oggetti ed esseri esterni a lui – ma che di fatto non sono solo ‘esterni’– quelle stesse qualità che riconosce in sé. È per questo che un filosofo contemporaneo come Reinhard Lauth sostiene che dal punto di vista etico l’umanità non sembra altro che un ‘embrione ributtante’7: considerando il mondo come un’entità soltanto esterna, infatti, tendiamo a devastarlo senza renderci conto che, devastando il mondo esterno, non stiamo facendo altro che distruggere noi stessi. Tutto questo si ricollega al rapporto tra dimensione orizzontale e verticale di cui parlavo prima. Dal momento che gli oggetti esterni non sono veramente soltanto esterni, il rapporto interrelazionale e intersoggettivo col mondo e con le altre persone diventa una costituente fondamentale della coscienza dell’essere umano in quanto tale, e determina una dimensione per così dire ‘orizzontale’ dell’esistenza. Tuttavia, la sfera della coscienza finita presuppone anche il rapporto con un’altra sfera che non è esprimibile soltanto in termini teoretico-concettuali, ma necessita di altri livelli e forme di coscienza che non sono oggettivamente esplicabili (nei limiti della coscienza ordinaria), ma solo presupponibili come necessarie per esseri finiti quali noi siamo. E qui entra in gioco la dimensione ‘verticale’, cioè la sfera dell’intelligibile. 7 REINHARD LAUTH, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di Marco Ivaldo, Torino, Trauben, 2004, pag. 90. Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 523 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 523 Se pensi a Dio come a un grande vecchio con la barba bianca che ci guarda dalle nuvole del Paradiso hai fallito, perché stai utilizzando un livello di coscienza totalmente estraneo a quella dimensione. In altre parole la coscienza finita non è l’unico livello di ‘coscienza’ che esiste. Il sonno, ad esempio, è un tipo di coscienza completamente diverso dalla coscienza di veglia: si veda la Resurrezione di Piero della Francesca dove il Cristo diventa il simbolo, con i suoi occhi ben aperti, di un ‘risveglio’ ad una realtà ben più ampia di quella che sono in grado di scorgere i quattro militari addormentati. Secondo Rudolf Steiner anche la morte è un livello di coscienza, perché nel momento in cui non si possiede più il corpo fisico permane comunque un ‘Io’, cioè un’essenza dotata di una sua particolarissima ‘coscienza’8. Non è qui la sede per approfondire queste cose, che richiederebbero ben altro impegno; rimane il fatto, però, che la filosofia di Fichte mi ha permesso di riconsiderare in termini completamente nuovi il rapporto tra soggettività diverse, e soprattutto di riflettere sul fatto che esistono diversi ambiti di coscienza, ognuno dei quali ha una sua validità, nel suo specifico raggio d’azione. S.P.: Come si relaziona tutto questo con la tua attività di compositore? A.S.: È chiaro che fare il compositore significa agire con una coscienza soggetto-oggettiva; il fatto di esserne consapevole, tuttavia, ti porta da un lato a concepire il tuo lavoro in termini di relazione orizzontale, e dunque di interrelazione e scambio interpersonale, mentre dall’altro ti porta a valorizzare il potere dell’introspezione immaginativa. L’utopia di novanta persone che improvvisando insieme realizzano estemporaneamente la Quinta di Beethoven nasce proprio da questa unione tra orizzontalità e verticalità, che presuppone lo sviluppo della capacità formativa di un pensiero che autoriflette su se stesso nell’atto stesso in cui si va formando: come dice Pareyson, «l’opera riesce solo se la si fa come se si facesse da sé»9. La vivacità di questa operazione, e anche la sua straordinaria bellezza, è legata all’operatività di un pensiero intersoggettivo ed estemporaneo: sono convinto che da tutto questo possa nascere una forma di arte completamente nuova, che non potrebbe esistere a prescindere da questa consapevolezza. 8 RUDOLF STEINER, La scienza occulta nelle sue linee generali, cap. III, Sonno e morte, Milano, Ed. Antroposof ica, 1992, pagg. 66-110. 9 LUIGI PAREYSON, Estetica. Teoria della formatività, Firenze, Sansoni, 1974, pag. 91. ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 524 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 524 S.P.: Penso che queste tue riflessioni sulla filosofia dell’improvvisazione siano destinate ad avere una ricaduta importante anche sulle tue attività musicali. Quali sono i progetti su cui ti appresti a lavorare, in un prossimo futuro? A.S.: Il mio lavoro di riflessione teorica procede di pari passo con vari progetti che investono la sfera della pratica musicale. Innanzitutto vorrei approfondire la mia esperienza di performer, perché è la cosa che mi diverte di più; devo confessare che oggi l’idea di scrivere una partitura mi pesa, la sento come una sorta di ‘compitino’. Non so bene cosa mi succederà. In questo momento gli stimoli più vitali sono legati al mio rapporto con Fabbriciani, e alla relazione intersoggettiva che si è creata tra il suo flauto e la mia fisarmonica. Se al posto della fisarmonica ci fosse un’orchestra, che cosa succederebbe? È possibile immaginare una partitura per flauto e orchestra aperta a una realizzazione estemporanea? S.P.: Probabilmente sì, anche perché il repertorio della musica contemporanea è particolarmente ricco di partiture aleatorie, con margini di indeterminazione più o meno ampi, o comunque aperte all’intervento degli interpreti. Tuttavia mi sembra di capire che questo tipo di ‘apertura’, tipico delle avanguardie storiche, sia molto lontano dalla tua idea di estemporaneizzazione. A.S.: Negli anni ‘ruggenti’ dell’opera aperta, in cui queste cose andavano molto di moda, io non ho mai scritto delle partiture aleatorie. Non solo perché consideravo la composizione scritta come una pratica totalmente disgiunta dall’improvvisazione, ma anche perché ho sempre avuto grandi perplessità sulla possibilità di assegnare dei margini di improvvisazione agli interpreti tradizionali, spesso totalmente impreparati a svolgere questo compito. Negli ultimi anni invece ho cominciato a scrivere partiture aperte come ad esempio My J (2008), destinata al Gruppo AleaNova. La differenza è tutta qui: penso che non si possa immaginare una partitura aperta a prescindere dai suoi destinatari, e cioè dai musicisti che saranno poi concretamente chiamati a realizzarla. In altri termini, sono convinto che per scrivere una partitura aperta sia necessario partire dal contesto performativo a cui è destinata; altrimenti si rischia di fare solo un’operazione astratta e priva di senso musicale. Interviste NRMI 4/2012 – ALESSANDRO SBORDONI 525 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 525 In conclusione, la mia esigenza di sperimentare le potenzialità di un pensiero musicale estemporaneo in un contesto performativo più ampio probabilmente passa anche attraverso il recupero della scrittura. So perfettamente che il mio tentativo di integrare la sfera dell’improvvisazione con quella della composizione è un percorso di ricerca insidioso, costellato da una serie infinita di ostacoli. Continuo a pensare, tuttavia, che nell’orizzonte della contemporaneità la riunione di un pensiero formante e costruttivo con un pensiero estemporaneo e performativo rappresenti un elemento indispensabile per recuperare una dimensione più autentica del far musica: e cioè una dimensione vitale, interpersonale e consapevole del suo farsi, del suo divenire e del suo essere musicale nel mondo. ALESSANDRO SBORDONI – NRMI 4/2012 Interviste 526 NRMI_4_2012:NRMI 27/03/13 20:43 Pagina 526