La voce, l’origine

“La voce, l’origine” revisione dello scritto pubblicato su Sonus – Materiali per la musica moderna e contemporanea – Fascicolo n. 17 – Dicembre 1997

Alessandro Sbordoni

 L’emergere in questi ultimi secoli di contenuti “logico-discorsivi” ha fatto sì che nel pensiero musicale si sia andata affermando un’attitudine “strumentale”, con la conseguenza che la vocalità, anticamente al centro dell’esperienza della musica, si è vista confinare sempre più ai margini. La funzionalità armonica tonale, l’esposizione articolata delle forme, dei materiali e dei loro sviluppi, la serialità con il suo contrappunto ritmo-timbro-imitativo sono solo alcuni esempi di un pensiero musicale teso alla ricerca di quella che linguisticamente potrebbe definirsi una sorta di “doppia articolazione”, di un pensiero che va organizzandosi logicamente e costruttivamente attorno ad alcuni materiali di base, considerati allo stesso modo in cui l’architettura considera i mattoni nella costruzione di un edificio. Al tramonto ormai di questa esperienza “costruttivista”, col venir meno dell’ultimo sfolgorio da essa prodotto sia nella serialità integrale (massima determinazione del “discorso” musicale) sia nella sua negazione (aleatorio ed informale), per scongiurare involuzioni e penosi ritorni all’indietro (neoromanticismo, postmodernismo e oltre) pur volendo salvaguardare una prassi musicale autentica e per così dire “alta”, è il caso di ripensare quei fenomeni fondanti dell’esperienza musicale, che ne circoscrivono le condizioni di esistenza e che offrono l’occasione di inaugurare lo sviluppo di una sensibilità e forse anche di un nuovo pensiero. Tra questi fenomeni uno dei più importanti e produttivi resta sicuramente la voce umana, con le sue caratteristiche “naturali” di emissione e la concreta affascinante limitatezza delle sue possibilità. Ma che vuol dire “strumentale”? Ha senso parlare di una opposizione vocale/strumentale? Nelle scuole di composizione di solito si taccia di strumentale tutto ciò che per uno strumento risulta semplice ma che invece è arduo e difficoltoso per una voce. Ad esempio un arpeggio velocissimo a intervalli dilatati su una triade maggiore o minore: per un violoncello è cosa dei primi anni di studio, mentre per una voce di basso risulta estremamente difficile. Sarebbe dunque possibile affermare che la voce apporta un carattere tutto suo al “musicale”, limitandone i contorni ma offrendo l’ancoraggio ad una “naturalità” che forse sarebbe bene non perdere di vista? Potrebbe darsi che la concretezza di una contiguità con l’umano offra l’occasione di evitare l’astrattezza di dimensioni musicali innaturali, stranianti, cervellotiche? Si potrebbe obiettare: come si fa a dire che la vocalità è stata relegata ai margini dell’esperienza musicale, quando siamo appena emersi da un secolo, l’Ottocento, che anzi grazie al melodramma ha fatto della voce il perno della vita musicale? Invece proprio da qui emerge come la vocalità che il sette e l’ottocento hanno messo in opera sia una vocalità tutta ispirata ai modelli astratti dell’armonia triadica e derivati. Lo si vede bene facendo il confronto con autori precedenti: Monteverdi e Palestrina, lo stesso Gesualdo, per riferirsi a compositori già “moderni”, anche nei passaggi più complessi restano comunque ancorati ad una specificità vocale. Il loro pensiero, di natura melodico-melismatica, si esplica attraverso l’uso del grado congiunto, di una durata limitata del melisma (connessa alle possibilità di respirazione), del mantenimento di registri centrali rispetto alle estensioni normali delle voci, di un’armonia formata da “parti” dotate di una loro propria sostanzialità melodica, cioè non asservite alle necessità di gestione armonica. Non a caso questo tipo di vocalità non sente il bisogno di una parte strumentale, oppure la considera puramente accessoria. Con l’affermarsi di una concezione sempre più funzionale dell’armonia tutti questi caratteri della vocalità vanno scemando, e comincia a prevalere l’astrattezza del desiderio di conformare anche le linee vocali alle richieste del dettato armonico – formale. Le frasi si allungano, i registri vocali si allargano, la conduzione melismatica si frantuma in salti considerevoli, l’orchestra assume un ruolo di primo piano, nei cori le parti intermedie assumono sempre più il ruolo di riempitivi armonici, le parti solistiche diventano virtuosistiche, addirittura acrobatiche. Si rende inevitabile la presenza di specialisti, di virtuosi: le persone dotate di una voce “normale” sono escluse dalla possibilità del canto. Più ci avviciniamo alla contemporaneità, più questi caratteri di innaturale astrattezza si accentuano: i registri vocali vengono spinti ai limiti delle possibilità, i salti si dilatano ancor più, si perde qualunque melismaticità. La voce ha compiuto l’ultimo balzo: i compositori la trattano proprio come uno strumento tra gli altri. Non c’è qui lo spazio per documentare questi tre momenti dell’evoluzione vocale dell’occidente. La tesi invece che vorrei sostenere, che costituisce peraltro la premessa della mia produzione vocale, è che la voce rappresenta una vera e propria “stella polare” in vista di un riorientamento all’interno di una realtà e di una prassi musicale planetaria davvero “molteplice”. Una sensibilità vocale può affermarsi solo in seguito ad un’attenta considerazione delle qualità e dei fenomeni più immediati, quasi primordiali, connessi all’emissione vocale. Solo così può forse emergere quanto di originario può esservi ancora nella voce stessa e nella musica (nel canto), intendendo con questa parola che forse proprio soltanto la voce umana trova ancora una sua contiguità, una sua vicinanza con stati e modi di essere che si trovano all’origine dell’esperienza musicale. Un’origine non storica, non è qui la filologia che interessa, ma una condizione che sostanzia di sé l’esperienza musicale trasformando in fatti sonori (vocali) musicalmente dotati di senso attitudini e atteggiamenti che vanno dalle posizioni fonatorie necessarie all’emissione vocale, ai “giochi” e operazioni di pensiero con essi possibili, alle caratteristiche degli “ambienti” per musica. Una concreta considerazione della vocalità contribuisce perciò a circoscrivere il campo delle inutilmente sconfinate possibilità offerte da un’astratta considerazione dell’evento sonoro, su cui il nostro secolo ha spesso indugiato, offrendo peraltro un’occasione unica di sviluppo (in senso musicale) perfino alle tecnologie elettroniche più sofisticate. Esiste insomma una sostanza ineludibile della vocalità che, se da un lato non è necessario esaltare e ipostatizzare come un qualcosa di assoluto o di mitico, dall’altro però non può e non deve neppure essere dimenticata da una prassi musicale autentica, rappresentando una condizione necessaria, una scaturigine di attitudini musicali, una sorgente di fenomeni che definiscono un’area altamente significativa dell’operatività musicale. In un’epoca di cultura sempre più virtuale, la “mia” voce e ciò che essa è in grado di cantare rappresenta un dato in qualche modo “oggettivo”, un riferimento sicuro anche se non statico, in grado ovviamente di evolversi, di accrescere (o diminuire) le sue potenzialità. Dal punto di vista timbrico ad esempio, io-sono-la-mia-voce. Essa è un dato inalienabile, che mi caratterizza e mi rende presente. Posso elaborare elettronicamente la voce, è ovvio, ma il punto di partenza è proprio quello, risultato di un vissuto e di una qualità vocale che appartengono soltanto a me. Chiunque abbia lavorato alla elaborazione elettronica di suoni vocali sa quanto a lungo rimanga riconoscibile una voce, nonostante le più complesse elaborazioni. Ascoltando una voce che canta entro infatti in contatto non soltanto con un “suono”, ma con un contenuto espressivo, oserei dire con tutto un “vissuto”. Per modificare davvero la voce, la sua qualità espressiva, non è sufficiente premere un pulsante: è necessario un lavoro tecnico, lo sviluppo di un’attenzione alla qualità sonora, e forse anche il coraggio di modificare le scelte espressive e con esse il contesto di vita. Proprio l’ascolto attento di questa qualità sonora mette in grado di capire che cosa la voce esegua con sforzo e difficoltà o con facilità e leggerezza, dando modo di elaborare un ventaglio di possibilità espressive che interpretino l’intenzione musicale e la arricchiscano della percezione di questa origine. Spesso invece i compositori abbandonano i cantanti al loro destino, affidando loro compiti vocali che rispondono a strategie puramente intellettuali o mentali, cioè che prescindono dall’esperienza di un auto-ascolto espressivo e personalmente sperimentato. Sicuramente questo è uno dei fattori per cui la musica contemporanea fatica a reggere il confronto con altri generi musicali: il panorama della musica “colta” sarebbe ben differente se i compositori (me compreso) dessero uno spazio maggiore a ciò che a loro stessi “piace” suonare o cantare! E’ ancora una perdita di concretezza l’aver perso quella capacità di autopercezione delle tensioni o dei rilassamenti indotti sull’organo fonatorio dall’emissione vocale, che ha finito per produrre l’atrofia della percezione degli stati psicofisici indotti dal canto e quindi la loro scomparsa dall’orizzonte compositivo. Anche questo può aver contribuito al cambiamento di tutta una serie di condizioni di esistenza dell’esperienza musicale. Lo sviluppo di tecniche compositive di tipo costruttivista ha portato ad esempio all’esigenza di una progressiva modificazione dei requisiti acustici degli ambienti per musica. Il fatto che dovessero essere messi in evidenza i rapporti formali del pensiero musicale (riconoscibilità delle successioni accordali e delle modulazioni, dei temi, dei contrappunti imitativi e via dicendo) ha favorito la predisposizione di ambienti poco risonanti, perché là dove la coda di suono è troppo lunga si produce necessariamente una “confusione” di fatti sonori, si creano sovrapposizioni non volute e quindi fastidiose appunto perché impediscono la chiarezza espositiva, la limpida percezione dei rapporti formali tra i materiali musicali. Di qui l’affermarsi di una vocalità sempre più poderosa, spinta da un lato a competere col gigantismo dell’orchestra, dall’altro sempre meno sostenuta dalla risonanza della sala stessa. Chiunque può fare un semplice esperimento: si provi a cantare in un ambiente con un’acustica secca e asciutta e poi in un ambiente molto risonante, dotato di una lunga coda di suono. Mentre nel primo caso si avvertirà una insoddisfazione nel risultato vocale, si sentirà la voce debole e carente, nel secondo caso non solo ci si sentirà immediatamente sorretti dalla risonanza ambientale, ma si ridurrà considerevolmente anche lo sforzo di emissione, con un notevole miglioramento della qualità vocale. Anticamente il canto non richiedeva la presenza di strumenti appunto perché era perfettamente fuso con la risonanza ambientale, che in base alla costituzione stessa del canto – lento o veloce – non solo creava il giusto ambiente, ma forse determinava addirittura un’”armonia” offerta dal fluente sovrapporsi dei suoni precedenti con quelli successivi. Ogni canto risuona nel “suo” ambiente. E’ per questo che i gregorianisti parlano di “timbri modali” e non più, schematicamente, di modalità. Anche oggi ritorna al centro dell’attenzione l’importanza dell’ambientazione della musica, ovvero della costituzione risonante dell’ambiente, che costituisce il capitolo di gran lunga più interessante di ciò che va sotto il nome di spazializzazione del suono: anche qui torna ad essere produttiva una mentalità “vocale”, l’attenzione per la risonanza. Vorrei infine tornare a considerare quel fatto elementare ma fondante dell’emissione vocale che è costituito dalla percezione di tensioni e rilassamenti indotti nell’organo fonatorio da alcune forme di successione intervallare. Fattori di questo genere avvicinano con semplicità ad una “origine” del musicale, connotano una prassi che può rapportare la musica perfino ad istanze ad essa (apparentemente?) esteriori, inserendola cioè all’interno di tutta una situazione culturale, sociale, storica. E’ noto che un intervallo ascendente provoca un restringimento dell’organo di fonazione, inducendo perciò una tensione, mentre un intervallo discendente produce un rilassamento, dovuto all’allargarsi dello stesso organo. Si pensi a melismi semplicissimi: cantare do – re bemolle induce una sensazione simile a quella indotta da sol – si ma molto differente, poniamo, da sol – mi o re – do. Non è un caso che la neumatica medioevale esprima con uno stesso segno tutti i fatti del primo tipo (intervallo ascendente: pes), e con un altro segno tutti i fatti del secondo tipo (intervallo discendente: clivis), indipendentemente dalle altezze in gioco. Ciò è indice di una acuta capacità di autopercezione degli stati psicofisici indotti dal melisma, e quindi dell’esistenza di un vivace rapporto tra la forma musicale-melismatica del canto e le condizioni psicofisiche indotte dal canto stesso. Per questo diventava forse possibile istituire tutti quei simbolismi tra il canto e il calendario liturgico, anch’esso contemporaneamente fonte e ricettacolo di attitudini e stati psico-fisico-spirituali. Sono ipotesi di pura fantasia? Può darsi, e comunque il pensiero antico rifuggiva da ogni meccanicità: è però assai interessante poter scorgere la traccia di una sensibilità che si fa pensiero organizzato del canto, di istanze psicofisiche che vengono percepite, tradotte e amplificate in attitudini espressive, ponendosi all’origine dello sviluppo di un pensiero musicale davvero poderoso. Siamo agli antipodi di una mentalità seriale, che invece isola i suoni e perciò li rende sterili prescindendo dal sapore dei loro rapporti intervallari, pretendendo che intonare un intervallo di ottava sia la stessa cosa che intonarne uno di settima! Si intravede un salto considerevole di sensiblità e di pensiero: ma dove ci porterebbe una strada come quella qui appena intuita? Non si sa, i tempi non sono ancora maturi neppure per le profezie. L’unica cosa che si può dire è che un pensiero musicale in crisi come quello dell’occidente, oscillante con violenza tra l’alienazione commerciale e l’astrattezza tutta strumentale della musica “colta” contemporanea, avrebbe molto da guadagnare dal riavvicinarsi alla voce umana e alle sue capacità naturali di emissione come ad una sorgente di attitudini musicali semplici, se non addirittura primordiali: certo non destinate a rimanere tali, ma in grado di porsi all’origine di una nuova complessità.