Caporaletti, “Le diffrazioni iconiche progressive di Alessandro Sbordoni”
In un recente scritto,[1] Jean-Jacques Nattiez si chiede, applicando alla storiografia una periodizzazione a scansione generazionale in funzione nomotetica e predittiva,[2] se la cultura postmoderna si possa considerare una temperie ad ormai imminente scadenza, sulla scorta di alternanze deterministiche di cicli culturali, con tanto di computo calibrato su unità di cinque lustri. Per inciso, si avverte nella posizione di Nattiez quasi un’ansia di sbarazzarsi finalmente di questa esperienza, cercando negli auspici stessi le linee forza di un inveramento.
Ripensando al mio personale rapporto col postmodernismo, potrei dire di avere avuto ben presenti i segnali premonitori di quella che già allora mi appariva come una nuova fase, quando nei primi anni settanta, nella Struttura assente (1968) di Umberto Eco, trovai una riflessione su quei pensatori francesi (Derrida, Foucault) che teorizzavano la dispersione dell’io e la dissoluzione della presenza della ritenzione temporale ai fini della costituzione della soggettività: prime avvisaglie teoretiche di quella che si sarebbe poi diffusa (e in molti casi reclamizzata) come l’ideologia postmoderna, che naturalmente non si chiamava ancora così e che si configurava sotto il segno di una allora per me misteriosa e un po’ inquietante teorizzazione della “assenza”. La riflessione su questa immagine dell’“assenza” fu poi rilanciata in una memorabile raccolta di saggi di Renato Barilli, Tra presenza e assenza (1974), dove la questione del nuoveau frisson assumeva i contorni delle concrete opzioni di poetica, nell’operatività del telos ek-statico, della ricerca del nuovo ad ogni costo, uscendo, per così, dire “fuori di sé”, da una parte, e della ars combinatoria “modulare” dall’altra, nell’utilizzo “al quadrato” di stili e linguaggi ormai codificati e piegati alla logica di innovative sintassi: costituendosi, direbbe Adorno (ovviamente con tutt’altro outlook teoretico), come “materiali per una nuova forma”. Quello che è parallelamente avvenuto, nella musica d’arte di tradizione scritta occidentale come negli altri campi, è ben noto. Un’efflorescenza di straordinarie disposizioni creative orientate per lo più alla negazione della “grande narrazione” sistemica compositiva e tese alla decostruzione, in un orizzonte di azzeramento e democratizzazione valoriale (in gergo musicologico si è diffusa la formula “anything goes”, che dice, in modo da alcuni considerato tendenzioso, più o meno come stanno le cose).
Ma se si rivelasse vera l’ipotesi di Nattiez? Certo, chi scrive non ha mai pensato di abdicare a quelle facoltà oggetto di critica – tutt’altro che debole, bisogna dire – da parte del cosiddetto “pensiero debole”, convinto dalla lunga esperienza da musicus praticus che le cose debbano essere plausibilmente interpretate e spiegate sia pure coi benefici d’inventario rispetto alle posizioni ideologiche, ai condizionamenti materiali del soggetto percipiente, alle riflessività intercorrenti.[3] La capacità critica è limitata e per molti versi limitante, ma è quanto di meglio abbiamo a disposizione e dovremmo usarla cum grano salis. Se mi si passa questa forzosa – in questa sede – schematizzazione di questioni altrimenti complesse e sfaccettate, ci si potrà allora volgere ai segnali “progressivi” che alla luce di queste argomentazioni appaiono nella musica recente di Alessandro Sbordoni, presentata in questa raccolta.
In primis desidero specificare che uso il termine “progressivo” deliberatamente in antitesi con le “degnità” postmoderniste, denotando esattamente un movimento “verso” qualcosa d’altro, istituendo un dinamismo direzionale estetico e valoriale, in linea, se si vuole, con il percorso indicato da Nattiez. In questo senso, almeno due direttrici mi sembrano acquisire evidenza in Sbordoni, e riguardano propriamente aspetti che individuano altrettanti nodi fondanti del modello teorico della formatività audiotattile:[4] la identitarizzazione fonica e l’energizzazione formale, come gangli erosivi dialettici che il compositore romano introduce con intento “costruttivo” all’interno di una disposizione poietica, peraltro, di ortodossa derivazione postmoderna.
Sbordoni, infatti, appare applicare questa diadicità di istanze vettoriali, che esploreremo più avanti, nell’ambito di una koiné artistica del tutto in linea con le poetiche dell’ultima fin de siècle: la praticabilità della dimensione semantica del suono organizzato, innanzitutto, particolarmente evidente in Altro tempo, con riferimento alla poesia La casa dei doganieri di Eugenio Montale, oppure le selezioni contestuali programmate, in MJ. Inoltre, l’utilizzo della scrittura al quadrato, attraverso la disponibilità degli stili tratti dalla “galleria dei modi formativi”, che sempre di più va assumendo i tratti metaforici di un pescare contenuti e dati dall’internet al semplice schioccare di una qualche password (a questo proposito, si potrebbe evocare il criterio – che sta alla new musicology come la kriptonite a Superman – delle “omologie strutturali”) avendo predisposti e pronti all’utilizzo di una sintassi combinatoria le dinamiche creative e i reperti linguistici di ogni tempo e ogni cultura. Quindi, ancora, l’uso dei criteri classicisti simmetrici nell’organizzare la forma – vedi la relazione tra incipit ed excipit in Tu non ricordi (recitativo), primo episodio di Altro tempo –, l’uso della griglia metrica, con un utilizzo del repertorio storicizzato di articolazioni formali sull’asse della simultaneità attraverso moduli bitonali, politonali, modali, differenziati modi costruttivi plurilineari, e altro.
In questo senso, si utilizzano i principi operativi della musica di tradizione scritta come topoi creativi non vincolanti, come brainframe tra gli altri a disposizione, che esibiscono i propri tratti cromosomici (o cronosonici?) anch’essi ascritti alla galleria dei modi formativi. Il contrappunto assume a tratti i valori geometrici della ripetibilità uniforme, facendo emergere le vestigia del logos archetipico della modernità occidentale, permeato subliminalmente dalla struttura dalla griglia metrica, con le sequele di quartine semicrome ribattute in Altro tempo o gli arpeggi reiterati di biscrome in Meine Freude, affettuosamente assecondate quasi in una felice agnizione della propria cittadinanza ideale. Un altro topos è la concezione organicistica della forma (dobbiamo qui produrci in un pedante riferimento a Schenker?) in A.D.C.E. Microsong per Aldo Clementi, in cui un gioco combinatorio (di gran lustro nella storia della musica occidentale), che utilizza il primo e terzo fonema del nome e cognome del compositore catanese, sta ad individuare – se decodificato con la solmisazione tedesca e anglosassone (o medievale, per chi volesse) – un aggregato tetracordale in funzione della schoenberghiana Grundgestalt. Dalle gemmazioni di questa, impostate su due piani sonori a distanza di semitono diatonico, il brano assume uno sviluppo rigorosissimo e particolarmente luminescente sul piano sonoro.
Abbiamo già notato come la classica misura contrasti l’estetica postmoderna del frammento in Altro tempo, in analogia col trattamento “classico” di Montale, che utilizza torniti endecasillabi sia pure filtrati da un criterio fonico-materico caratterizzato da impredicibilità topologica relativamente al sostrato sonoriale, in un processo del tutto estraneo alla misura arcadica. Sbordoni, in questo caso, non sembra indirizzarsi tanto al sostrato semantico, evocato, come parrebbe, dalle Note per l’esecuzione, quanto al coté costruttivo della pratica formativa montaliana, alla tecnica compositiva utilizzata dal poeta; la sintassi musicale, d’altra parte, si sintonizza su modi linguistici indicizzati sul tempo storico in cui si inscrive la creazione del testo montaliano.
In MJ, il riferimento (Louis Gates direbbe l’oggetto del “signifyin(g)”) è l’icona stessa dello strutturalismo musicale, Pierre Boulez (guarda caso, come nell’esperienza di De Dé, del 1977, era stata per Sbordoni (e Guaccero) la Trosiéme Sonate pour Piano, sempre di Boulez). Questa volta in gioco è il Boulez di Répons. Anche qui abbiamo una serie di aggregati armonici che incardinano il brano, ma a differenza della prassi logico-deduttiva per file interne incorporata nella poiesis compositivo-scritturale strutturalista, Sbordoni affida queste Gestalten verticali alla selezione contestuale dei “performer creativi”, impostando un processo di scelte programmate, in una sorta di idiosincratico “My Jazz”, personale visione delle procedure audiotattili attive nei repertori della tradizione moderna del jazz. Nello stesso senso, la strutturazione delle cellule ritmiche si organizza mediante un inventario predisposto dal compositore, da cui il performer seleziona e combina elementi che, a differenza delle astratte geometrie entropizzanti dello strutturalismo musicale, sono costantemente aderenti alle diffrazioni iconiche, “figurative”. Sin troppo scoperta, forse, è l’articolazione di sezioni formali di dodici misure, sul modello dello schema architettonico del blues. La stessa organizzazione formale di larga scala è suscettibile di selezioni contestuali all’interno di un ordine precostituito a grana larga, per addensamenti formali predeterminati.[5]
Si può parlare di iconismo sonoro a proposito di questo generalizzato ricorso a pratiche e disposizioni creative attinte dalla galleria dei modi formativi, utilizzate nella dispersione e continua diffrazione dello stile individuale, e fondate su dispositivi di denotazione e connotazione reperibili nella fonosfera della globalità comunicativa. In questo senso, il relativismo dell’ermeneutica gadameriana, con l’accento sulla situazionalità dell’interpretazione, si potrebbe configurare come una – decisamente poco “debole” – risonanza ideologica e poietica.
Ma è proprio in questo paesaggio connotante una classicità postmoderna che Sbordoni comincia a tracciare i propri sentieri liminali. Cerchiamo di chiarire distintamente in che modo.
Sbordoni nella sua produzione più recente cerca un suo personale “sound” (per utilizzare una categoria dell’estetica audiotattile), come intenzionato valore pertinente: non come puro tratto stilistico, ma in maniera omologa – per capirci – alla linea di fenomenologica e materica appropriazione identitaria del suono perseguita da un Ornette Coleman o un Miles Davis, anche se con coordinate antropologiche ed estetiche – e soprattutto all’interno di un personale “intreccio storico” – del tutto allogene. E lo trova – per l’intorno di questi anni, perlomeno – nella tessitura del bayan,[6] aderendo così ad una concezione del suono come voce individuale e audiotattile. Una “concezione” musicale, questa (nel senso sistematico di Alan Merriam), non direttamente afferente ai modi e alle idee con cui la tradizione scritta dell’arte musicale in Occidente ha inteso proiettare e circoscrivere la soggettività agente: ossia, per file interne, per modi e stili di elaborazione orizzontale dell’embricazione compositiva, nel dispiegamento della logica visiva intrinseca alla ratio poietica (Adorno parla di «principio razional-meccanico che ha dominato tutta la storia della musica occidentale»)[7] più che nella esibita concretezza fenomenica di un segno distintivo materico-fonico. Non, quindi, musica con dedicata destinazione strumentale – musica per bayan – ma “musica di Sbordoni” tout court.
Probabilmente su questo aspetto Adorno avrebbe avuto molto da obiettare, interpretando tale autonomizzazione del particolare, del segno fonico, come inafferente rispetto alla “struttura organizzata” della forma, e per ciò stesso inautentica. Vorrei criticare questa posizione partendo proprio da un piano di riflessione tangente con quello adorniano, e non, come sarebbe più facile, sulla scorta dell’ideologia postmoderna, poiché in tal caso basterebbe recidere ab ovo il nodo sostenendo che la nozione stessa di autenticità è impraticabile (come quella di “fatto storico”, peraltro: salvo poi ritrovarsi i negazionisti della Shoa tra i piedi). Considero questa argomentazione adorniana, infatti, un modo per pervenire a conclusioni sbagliate pur partendo da premesse (più o meno, come vedremo) giuste. Adorno e Horkheimer asserivano in proposito: «L’individuale si riduce alla capacità dell’universale di segnare l’accidentale con un marchio così indelebile da renderlo quello»,[8] stigmatizzando ciò che definivano “pseudo-individualismo” nell’industria culturale – beninteso, con una valenza veritativa che ritengo più che mai attuale per gran parte della odierna produzione cosiddetta popular, e non solo (oggi che, individuando con precisione i valori fenomenologici ed estetici audiotattili, possiamo discernere più chiaramente e equilibratamente, liberi dagli ecumenismi fuorvianti e dal felice annessionismo degli “integrati” della prima ora, i profili di banalità e pochezza di tanta musica insulsa). Per loro, il ciuffo sull’occhio del divo delle masse diventa un espediente per distinguerlo dal suo clone sostanziale: l’altro divo, però, col ciuffo posto sull’altro occhio.[9] Per i filosofi critici l’autonomizzazione del particolare era intesa come un inevitabile effetto della logica distintiva intrinseca alla circolazione delle merci, funzionale alle leggi e alla stessa sussistenza del marketing. Basta dire che erano “apocalittici” per risolvere la questione? Proviamo, invece, ad articolarne i contenuti.
Ciò che a mio parere sfuggiva agli esponenti della filosofia critica, per quanto qui ci interessa, erano almeno due serie di motivazioni. In primo luogo quel che potremmo definire come “disgiunzione antropologica”, lo iato epocale che ha proiettato la logica visiva della cultura moderna, sull’onda delle trasformazioni dei media elettronici nel secolo XX, in un’incommensurabile e inusitata dimensione. Questa è subito apparsa loro come una condizione detrimentale e barbarizzante, mentre, di converso, è oggi interpretata da noi, per determinati aspetti, come genuina fenomenologia audiotattile. In questo senso, con l’eversione non solo simbolica del bidimensionalismo della creatività moderna, con l’uscita dal quadro degli artisti visivi e dal foglio compositivo degli artisti sonori delle avanguardie storicizzate (e di Sbordoni stesso in De Dé) si è oltrepassata una soglia che non potrà essere mai reintegrata, anche negli apparenti e rituali “ritorni” stilistici. La dimensione in cui si muove oggi Sbordoni utilizza il suono come una datità fenomenologica che non può più prescindere dallo statuto ontologico dei performers, qui in particolare Germano Scurti al bayan, con selezioni contestuali soltanto potenziali oppure, come in MJ, scientemente perseguite. In ogni caso, la primazia e identitarietà del suono diventa garante di questa “uscita dal foglio” e della conseguente marcatura audiotattile del compositore, sia pure all’interno di quella linea genetica della scrittura musicale, della koiné occidentale, e della centralità “da sistema solare” – avrebbe detto Karlheinz Stockhausen – del controllo compositivo. “Scrittura” che, in questo caso, è un ulteriore topos della galleria dei modi formativi, sussunta medialmente dalla logica epistemica audiotattile.
Ma vi è un ulteriore approfondimento che vorrei evidenziare nella visione adorniana, per quanto concerne la presente discussione sulla musica di Sbordoni, non immediatamente apparente e da scandagliare attentamente. Intendo sottolineare come la stessa concezione dell’organizzazione della forma, intesa come selezione di criteri valoriali, diventi suscettibile di potenziamento e integrazione estetica all’interno della visione audiotattile, che ingloba costruttivamente gli elementi che rinveniamo come “progressivi” in Sbordoni, così vanificando la loro eventuale derogatoria categorizzazione in termini di “antagonistica e essenzialistica autonomizzazione del particolare”.
Qui non è il feticismo del particolare che si sostituisce all’organizzazione sonora – cosa del tutto legittima, peraltro, anzi spesso perseguita in una logica postmoderna – ma è in gioco, in chiave costruttiva e strutturale, invece, lo status stesso di questa specifica “particolarità”. Vi è la possibilità che ciò che appare come un elemento astratto dalla totalità organizzante possa diventare esso stesso, in una altra prospettiva, nuovo criterio strutturante di quella totalità. In altri termini, sia la fonicità identitaria sia l’energizzazione formale, che sfuggono (specie quest’ultima) alla presa della categorizzazione teorico-musicale occidentale (esempi: come si può spiegare il fenomeno del groove con l’esclusivo ricorso ai concetti ritmo-metrici basati sul sistema binario suddivisivo della sistematica delle durate? oppure, dar conto del valore fenomenologico della personalizzazione identitaria di una voce timbrica, prima che questa passi per la codifica che dico “neoauratica”[10] della registrazione, rientrando così a pieno titolo nella legale identificazione dell’opera?) sono i gangli fondanti di un altro tipo di esperienza estetica e costruttiva, di cui costituiscono i tratti superlativamente pertinenti e del quale si può e si deve configurare uno statuto nomologico (tanto che in certe tradizioni musicali, dove essi sono riconosciuti come elementi formalmente attivi, individuano i criteri basilari di valorizzazione estetica per qualsiasi ascoltatore appena provveduto).
All’obiezione che sento già materializzarsi, per cui questa inclusione di valori e forme allogene, nella tradizione occidentale a mediazione scritturale, altro non sarebbe che il segno più genuino di un “rilancio” (nel senso gergale pokeristico) dell’attitudine postmoderna, rispondo con il riferimento alle righe iniziali di questo contributo. Se vi è una radice genetica della condizione postmoderna, di là degli effetti di superficie sbandierati sino alla nausea come ricette di pronto intervento, questa è da ricercarsi nel ganglio fondante della concezione ego-logica, caratterizzato da “assenza”: la dissoluzione dell’io e la sua messa in serie nel costante differimento orizzontale è antitetica alla individuazione identitaria, alla concreta personalizzazione come ipostatizzazione della soggettività. Che poi questa venga realizzata col mezzo della scrittura e non con la piena presenza del compositore-performer è un dato inafferente, in base all’ampiamente discusso processo di sussunzione mediale,[11] per cui la scrittura viene piegata alla logica audiotattile, di cui abbraccia i valori:[12] si pensi ai numerosi esempi nella tradizione del jazz.[13]
Se questa non è la sede per un approfondimento concettuale del senso dei tratti formali connotati da ένέργεια ,[14] si può ottenere tuttavia una pervasiva esperienza sensoriale e auditiva di ciò che intendo con “caratterizzazione energetica della forma” (qui per i caratteri che attengono alla tradizione scritta occidentale negli sviluppi contemporanei) con la parte iniziale di Virgo e quella finale di Sirius. Nella meta-forma discografica del compact disc essi costituiscono l’incipit e l’excipit del disco stesso (quasi a considerarlo come una specie di concept album). In ogni caso, questi valori si organizzano nella piena resa audiotattile esecutiva (e massime nella fonofissazione) del progetto compositivo, anche in regime di ridotta operatività contestuale e estemporizzativa. Con specifico riferimento a Sirius, il brano di maggior respiro della raccolta, si ha una coalescenza dei valori di energizzazione formale e di identitarietà fonica attraverso un clangore corrusco che si stabilisce come Stimmung rispetto ad un caleidoscopio di diffrazioni iconiche, in un orizzonte le cui coordinate vanno dall’archetipo stravinskjiano a Holst, passando per il Donatoni di In Cauda V. La proliferazione semantica vi gioca un ruolo fondamentale, ma in particolare emerge il jeu strumentale di Scurti attraverso l’identità fonica del bayan. Non a caso, il timbro dello strumento, che nella tessitura grave rimanda alla grana della voce di un ottavista della musica vocale di rito russo-ortodosso – connotazione particolarmente magnificata e corroborata dal clarinetto basso in Virgo – fa tutt’uno con la tranche de vie della risultante sorda dei rilasci dei tasti, residui sonori connotati da arcaicità tecnologica che potrebbe rinviare alla fattura costruttiva dell’organo portativo trecentesco di un Francesco Landini: ma anche la “prova di sforzo” esecutivo intrinseco allo strumento stesso, piegato ad esiti virtuosistici, concorre a tracciare un sottotesto esistenziale. Un tale complesso valoriale ne caratterizza inconfondibilmente l’ethos audiotattile. Questo si struttura nelle stratificazioni semantiche associate con la specificità storico-antropologica del bayan, in cui i vettori energetici archetipici (rintracciabili nell’arcaicità della funzionalità coreutica indissolubilmente legata alla radice etnica) fanno tutt’uno con l’energizzazione formale, che si costituisce come una forma di costitutiva attribuzione ontologica, di codifica a priori, che permane anche nelle atmosfere più umbratili. Sbordoni, inoltre, ci dà prova in Sirius di virtuosismo nel trattamento orchestrale: qui la compagine assume i tratti fonico-materici del bayan, “suona” come un macro-bayan, con le componenti notali sul piano diastematico che si riorganizzano come nuclei di spettro sonoro, innescando un circolare processo di auto-somiglianza sul piano timbrico tra tutto/parte, di omologia tra livelli gerarchici differenziati.
Che il modello poietico della diffrazione iconica sia poi un tratto contemporaneo che trova il corrispettivo genomico nella screen music, non deve meravigliare, in un’epoca in cui, dall’arte alla politica, la fiction diventa una cassireriana forma simbolica, un medium di filtraggio del principio stesso di realtà. Ciò che invece mi sembra configurare il tratto, oserei dire, “etico” nella musica di Sbordoni (e qui, con buona pace dei nichilismi radical-chic di vario assortimento), è il dinamismo instaurato da ciò che abbiamo definito fattore “progressivo”, questo principio intrinsecamente dialettico che il compositore instilla nell’orizzonte della inautenticità normalizzata, fungibile e autoreferenziata, indicando (…È qui il varco?) un altrove e un possibile.
[1] Nattiez, Jean-Jacques, “Unità della musica, unità della musicologia? A mo’ di conclusione”, in J.J. Nattiez (a cura di), Enciclopedia della musica, Torino Einuadi, Vol. V, 2005, p.1207.
[2] Richiamandosi espressamente alla concezione storiografica di Hermann Danuser (ma che trova un precedente in Alfred Ottokar Lorenz, Abendländische Musikgeschichte im Rhythmus der Generationen, Berlino, Hesse, 1928).
[3] E vorrei anche suggerire, se mi si consente il riferimento personale, che il contributo dello scrivente al dibattito musicologico si è svolto nei termini propri della sistematica costruttiva, interpretando in positivo, alla luce della dialettica visivo/audiotattile, una serie di fenomeni che il pensiero postmoderno legge in chiave decostruttiva e negativa.
[4] Per quanto attiene al modello teorico delle “musiche audiotattili”, rimando a Vincenzo Caporaletti, La definizione dello swing. I fondamenti estetici del jazz e delle musiche audiotattili, Teramo, Ideasuoni, 2000; Id., I processi improvvisativi nella musica. Un approccio globale, Lucca LIM, 2005; Id., Esperienze di analisi del jazz, Lucca, LIM, 2007, e bibliografia allegata.
[5] Vorrei sottolineare come questa tecnica di selezione da inventario con attualizzazione predeterminata sia presente anche in altri repertori basati sulla formatività audiotattile, e non necessariamente una attribuzione del jazz. Un esempio, tra i tanti, è dato dalla la tradizione folk del ballu di Villanova Monteleone (SS), la cui componente musicale si organizza, a livello di mappatura concettuale, mediante i medesimi principi di percours obligé. (Cfr. Bernard Lortat-Jacob, “Improvisation: le modèle e ses réalisations» e Francesco Giannattasio, “Sistèmes d’improvisation dans les musiques de l’Italie du Sud», in Bernard Lortat-Jacob (a cura di), L’improvisation dans les musiques de tradition orale, Paris, Selaf, 1987, pp. 45-59 e 239-250.
[6] Il bayan, come noto, è un aerofono a mantice, ad ancia libera, con tastiera cromatica a bottoni; è stato ideato in Russia agli inizi del secolo XX.
[7] Th.W. Adorno, Vers une musique informelle, in G. Borio (a cura di) Immagini dialettiche. Scritti musicali 1955-68, Torino, Einaudi, 2004, p. 265.
[8] Horkheimer, Max e Adorno, Theodor W., Dialettica dell’illuminismo, (tr. it.), Torino, Einaudi, 1966 [III ed. 1974] , p. 166.
[9] Lo pseudo-idividualismo non è solo orizzontale, in relazione all’alterità soggettiva, ma anche diacronico, verticale, relativamente al proprio sé. Per fare un esempio nel pop italiano, si noterà come il cantante Jovanotti odierno si distingue dal sé pregresso in quanto, quando era un rapper saltellante in discoteca, il suo look prevedeva un cappelluccio colorato in testa, mentre adesso, come “cantautore impegnato” si è fatto crescere, inevitabilmente, la barba.
[10] Cfr. Caporaletti 2005, cit., pp.
[11] Cfr. il recente contributo Vincenzo Caporaletti, Milhaud, “Le Boeuf sur le toit” e do paradigma de áudiotátil, Instituto Moreira Salles, São Paulo-Brazil, (in pubblicazione).
[12] La scrittura e l’oralità non sono canali di trasmissione in sé significativi se non intesi attraverso i valori epistemici, le logiche formative – i sistemi operativi – che ne individuano, di volta in volta, il tratto dominante fenomenologico: per questa via si organizza il loro statuto mediologico. Anche i maya scrivevano, ma non per file interne, o con criteri di linearità, di omogeneità, di ripetibilità auniforme, bensì con i nodi delle corde, prospettando un sistema percettivo e una cognitività antropologica di tipo, appunto, audiotattile.
[13] Cfr. ad esempio l’assoluta prescrittività scritturale di Dance Before the Mirror [Capitol,1951] dell’orchestra di Stan Kenton, dalla suite City of Glass [1948, II versione 1951] di Robert Graettinger.
[14] Vedi per questo V. Caporaletti, La definizione dello swing, cit.