Musica e spiritualità 2000

Musica d’oggi e spiritualità

Alessandro Sbordoni  (intervento per Rive Gauche Concerti, ottobre 2000) “Non possiamo fare a meno dell’arte”, dice giustamente Ananda Coomaraswamy, ma “possiamo fare a meno degli artisti la cui arte non ha alcuna applicazione”. Questa frase, incompleta ed evidentemente provocatoria, fa subito sorgere una quantità di domande: come è possibile che un‘arte, produttrice di oggetti concreti, non abbia nessuna applicazione? Come è possibile che un artigianato, sia pure il più astratto e sofisticato, sia avulso dalla realtà?, e quale sarebbe la realtà a cui l’arte contemporanea secondo Coomaraswami non troverebbe attualmente applicazione? Appare chiaro che è sulle qualificazioni dell’”artista” contemporaneo che va appuntata la critica, sia perché Coomaraswami non sembra comunque mettere in discussione la significatività dell’arte, sia perché possiamo tranquillamente escludere che un teorico dell’arte di quella grandezza potesse intendere il termine “applicazione” in un’accezione diminutiva, come potrebbe essere appunto l’applicare attitudini “artistiche” a vari segmenti della realtà – politica, economica, sociale, naturale… Bisogna dunque cominciare a chiedersi chi siano gli artisti di oggi e dove essi si trovino nel mondo attuale. Il senso comune, col detto “Carmina non dant panem”, già chiarisce che per i più l’”arte” non rientra tra le attività remunerative e quindi influenti sulla prassi – teorico-applicativa, operativa, trasformante la “realtà”. L’arte non sarebbe cioè indispensabile alla vita concreta, al soddisfacimento di bisogni essenziali. Essa sarebbe un puro gioco decorativo, un ghirigoro ornamentale privo di ripercussioni pratiche sulla vita reale. E’ veramente così? Certo, una concezione che vede l’arte come un’abilità del tutto peculiare, un virtuosismo circoscritto a pochi eletti particolarmente dotati che hanno dedicato la propria vita ad un’attività funambolica, da saltimbanchi di lusso, non può che concludere per una grande difficoltà della sopravvivenza dell’arte nel mondo attuale, improntato alla materialità degli interessi e delle funzioni, impossibilitato cioè a prendere in considerazione segmenti di “realtà” che volino un po’ più alto della più bassa, “normale” attività sensoriale. Una visione unicamente estetizzante dell’arte, che la releghi nell’oggettistica di un bello magari anche venato di accademia, non può che essere destinata alla vetrina del museo. Senza con ciò voler denigrare le “opere d’arte” museali, che anzi sono spesso in grado di destare emozioni profonde, vorrei mettere in evidenza l’insufficienza del considerare il fenomeno artistico unicamente in quanto produzione di un oggetto (di un’”opera” non a caso poi tecnicamente riproducibile), senza invece considerarne la natura di processo, un processo interno di profondo rapporto espressivo con l’interiorità e poi di scambio, nell’artista come nel cosiddetto fruitore. Si rivelano anzi insufficienti ambedue i punti di vista: sia quello che considera l’arte come totalmente astratta dalla realtà reale (perché restringe troppo il concetto di realtà), sia quello che invece “appiattisce” troppo l’arte sulla realtà, mettendola al servizio di qualcosa, perché ancora una volta sacrifica la possibilità di una sua completa, o più ampia possibile, partecipazione alla vastissima apertura del mondo. Per chi la pensa in uno di questi due modi l’arte è morta, come Dio è morto. Ma non ci si rende conto che in realtà ad essere “morta” è una certa concezione dell’arte, o di Dio. E precisamente quella concezione che separa l’arte e chi la fa, Dio e chi lo pensa, pratica, ascolta. Non può esistere un’arte dotata di “intenti” ad essa esterni, anche i più nobili ed alti, appunto perché l’arte si risolve nel suo farsi, nel suo essere un viaggio nella profondità individuale e anche e nello stesso tempo nelle profondità dello scambio comunicativo amorevole con altre entità “esterne”, uomini cose ambienti. In questo senso l’arte diviene un segno che unisce mondi diversi, contemporaneamente interni ed esterni all’individualità umana e diventa davvero trasformatrice della realtà, a patto che di quest’ultima non si abbia un concetto riduttivo. In questo l’arte si trova per sua stessa natura accomunata alla spiritualità, non perché essa si debba rivestire di intenzioni spirituali, ma perché per sua stessa consistenza e natura è uno dei pochi strumenti che l’uomo ha a sua disposizione per determinare una dimensione unitiva – con se stesso e col mondo – altrimenti inattingibile. Proprio nella sconfitta della divisione alienata del rapporto io/mondo consiste il vero momento creativo dell’arte, come del resto avviene per la spiritualità, anche se ovviamente su altri livelli e con altre modalità. 2 E’ infatti significativo che da questo punto di vista Dio e l’arte soffrano della stessa malattia, risentano della stessa divisione interna all’individualità contemporanea. Non a caso alla base della religione si trova una dimensione impegnativa per tutto l’uomo, altrimenti detta morale: la quale non è (o almeno non dovrebbe essere) una precettistica mandamentale, un codice giuridico dei peccati e delle pene, ma l’avvìo ad una vera e propria opera di perfezione mediante la quale e solo a partire dalla quale è possibile cercare la dimensione, tutta personale, del divino. Forse non è un caso che l’etica introduca alla religione, come l’estetica introduce all’arte. In questo senso dunque si capisce come non possa esistere, o perlomeno sia fuorviante, un’arte che si costituisca come un’”arte per…”, qualunque cosa si trovi dopo il “per”: rivoluzione, commercio, gioco, spiritualità…arte. Insomma l’”art pour l’art” è il punto estremo (di non ritorno?) di un’arte alienata, che non si concepisce più come creatività in atto, che separa il creatore e il fruitore, il soggetto e l’opera, e dunque diviene ipocritamente “moraleggiante”, nel senso che la bellezza è imposta, come nella moda, da qualcuno o da qualcosa di esterno al fare artistico stesso. Gli “opportunismi” che si possono stabilire sono innumerevoli: re, stato, moda del momento, commercio, adeguamento a standard di ogni tipo. L’arte non è più, in questo modo, un’avventura alla scoperta delle proprie attitudini interiori, ricerca di una personale dimensione del bello da partecipare, ma si appiattisce sull’oggetto sicuro perché “déjà vu”, sicuro appunto perché non deve fallire il bersaglio, tutto esteriore, che si è proposto. A questo punto forse è possibile riconsiderare la frase iniziale di Coomaraswami, se non altro per formulare qualche ipotesi su quale sarebbe la realtà cui l’arte di oggi non troverebbe applicazione. Dire che “possiamo fare a meno degli artisti la cui arte non ha alcuna applicazione” diventa infatti per Coomaraswami l’occasione per prendere le distanze da un’arte “astratta”, come spesso quella del Novecento, dedita cioè a mere elucubrazioni settoriali avendo perso totalmente il contatto con l’ampiezza della “realtà”, intendendo con questo termine ogni possibile realtà, anche quella che sorpassa gli stati e le attività sensoriali. L’”applicazione” che interessa Coomaraswami è l’applicazione dell’individuo ad un processo creativo che lo porti nelle altezze dell’interiorità, e attraverso loro a stabilire una comunicatività profonda e amorevole con altri esseri. Corollario di ciò è che se chi non si “applica” a questo non può essere artista nel senso pieno della parola – al più potrà essere un abile artigiano -, chiunque invece vi si applichi può divenire un artista sublime, sigillo di comunicazione tra diversi livelli di realtà, “pontefice” (= creatore di ponti) tra mondi e soggetto trasformante la stessa materia. Nonostante le evidenti difficoltà, non mancano alcuni riferimenti concreti, antichi e più recenti. L’anonimato medioevale costituisce forse l’ultimo segno di una creatività in cui il soggetto “si annulla” nel fare e nel co-operare (si pensi ai costruttori di cattedrali, ma anche al canto gregoriano), mentre una spiritualità “unitiva” è espressa da mistici come S. Giovanni della Croce o S. Teresa d’Avila. Il gruppo di improvvisazione concepito da Franco Evangelisti all’inizio degli anni Sessanta è un altro buon riferimento: un gruppo di compositori-esecutori in cui il soggetto, nel vivo e istantaneo farsi della creatività sonora, diviene partecipe di uno scambio comunicativo…con ciò prefigurando un mondo utopico, dove fluiscono la “carità”, l’amore, la comunicazione disinteressata tra individui nell’atto stesso del creare qualcosa di “bello”, in un percorso che dall’ascolto dell’interiorità conduce alla predisposizione di materiali sonori. Se dunque è sicuramente un fatto positivo che l’”artista” si ispiri a contenuti spirituali – le scritture, eventi storico/misterici, azioni sacre e ideali di qualunque tipo -, questa a mio avviso è una condizione ancora non sufficiente a fare di un’arte un’arte davvero “spirituale”. Un rapporto tra arte e spiritualità non andrebbe cercato in fattori “esterni”, in abiti più o meno sontuosi, ma viaggiando alla scoperta della radice comune sia dell’arte sia della spiritualità, verso quello stato di creatività unitiva di sé e del mondo circostante che costituisce il segno di un mondo nuovo.