Sbordoni perché improvvisare

PERCHÉ IMPROVVISARE OGGI. Interattivita’, ricorsivita’, liberta’ del pensiero musicale.

Alessandro Sbordoni

In MUSICA/REALTÀ n. 106

Può essere interessante chiedersi che cosa riporti oggi al centro della riflessione e della pratica musicale attiva l’improvvisazione, cioè un fenomeno che, con la sua prassi «aperta» e in qualche misura indeterminata, sembrava quasi del tutto scomparso dalla ribalta musicale contemporanea. In realtà sarebbe ormai necessaria e anzi urgente una ri-­‐definizione del concetto di improvvisazione, termine vago e troppo generico. D’altro canto non sembra possibile una definizione né semplice, cioè soltanto musicale, né univoca, cioè settoriale, di un concetto così ampio e complesso, che investe le più diverse aree di attività umana. Per forza di cose si dovrà qui restringere la riflessione al solo campo musicale, ma sempre tenendo conto della complessità e dell’ampiezza ormai raggiunte dalla comunicazione estemporanea interattiva. Che cosa si nasconde dietro questa ‘complessa vaghezza’? È mia convinzione che attraverso questo fenomeno, almeno nei modi in cui viene posto in opera in anni recenti, cominci ad affermarsi un nuovo paradigma (1) compositivo, un orizzonte del tutto nuovo del pensiero musicale, che sta riconfigurando sostanzialmente l’atto compositivo sia in senso poietico che in senso ricettivo, estesico (2) . I quali anzi, e in ciò consisterebbe appunto l’aspetto più innovativo, non andrebbero più considerati in quanto separati ovvero esercitati in momenti diversi, ma in stretta interazione reciproca in atto. Data la complessità e la vastità delle problematiche che il concetto di improvvisazione comporta ero già arrivato alla conclusione che a questo proposito il compositore si trova a dover interloquire con lo psicologo, col filosofo, col musicoterapeuta come anche con i suoi colleghi musicisti e musicologi, per indagare a fondo non solo gli archetipi le valenze e la profonda consistenza creativa dell’attitudine improvvisativa, ma anche una sua storia e un suo futuro oltre che una sua operatività, una sua efficacia nell’attualità culturale e sociale. Infatti nella pubblicazione sull’improvvisazione da me curata cercavo una interpretazione di questo stato di cose costruendo non un MIO libro ma un libro a più mani, dotato di un’architettura complessa sia degli argomenti da trattare sia dei personaggi da coinvolgere, un “mosaico” formato da non pochi studiosi e musicisti (3). Ciò che chiamiamo ‘improvvisazione’ è un’attitudine in generale molto più presente di quanto non sembri a prima vista: quando si pianta un chiodo nel muro, come quando si guida in autostrada o si esegue una partitura che si pretenderebbe del tutto scritta, in realtà si opera all’impronta, adattando con immediatezza alcune “regole” già note ed esplicite alla situazione particolare, nel corso del suo svolgersi. Allargando il discorso all’attualità più ampiamente culturale e sociale, vorrei dire che occuparsi di improvvisazione è oggi particolarmente importante proprio per tentare una interpretazione dell’esigenza profonda di comunicatività interattiva che emerge dal sociale, enormemente potenziata dalle tecnologie elettroniche. Come ho già detto, si tratta di una vera e propria sfida che la società globalizzata del pianeta pone a quella che dovrebbe essere la sua arte: mostrare che una interazione comunicativa può essere dotata anche di contenuti di alto spessore, non unicamente rivolti al quotidiano (senza nulla togliere alla sua importanza). Non mi riferisco soltanto a contenuti di tipo intellettuale, ma a valori di cui un’arte come l’improvvisazione di gruppo è senz’altro portatrice, i quali si aggiungono alla specificità del tutto particolare, come si vedrà, di un comporre di tal genere: ad esempio restituendo pienezza alla presenza, ad uno scambio comunicativo che invece di essere operato a distanza venga esercitato nella vivacità di scelte estemporanee, condivise e profondamente sentite dai compresenti. Come giustamente osserva Luigi Pareyson in una sua celebre proposizione, qualsiasi attività formativa umana, qualsiasi “Formare, dunque, significa «fare», ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare”, per cui addirittura “l’opera riesce solo se la si fa come se si facesse da sé” (4) . Affinché si possa parlare di improvvisazione musicale in senso forte è necessario allora aggiungere ai contenuti sonori almeno l’estemporaneità del processo formativo e la sua istantaneità, in altre parole una sua immediatezza temporale e dunque una certa irripetibilità. Volendo inoltre restringersi ad un campo schiettamente compositivo, che soprattutto ci interessa qui, la questione principale è chiedersi come sia possibile che un’improvvisare possa dar luogo ad un’opera compiuta e dotata di senso, per di più davvero pienamente espressiva delle personalità coinvolte nel processo improvvisativo. Questo improvvisare insomma, in che misura è ‘comporre’? In che misura è l’esercizio di un pensiero musicale ben formato, e non è invece un’accozzaglia di suoni buttati lì a casaccio? In che modo la verticalità e la profondità psichica di un processo compositivo si può trasferire nell’orizzontalità di una creatività a più mani, ovvero ‘di gruppo’? Il performer è veramente portatore di uno stile in senso pareysoniano, oppure partecipa in modo del tutto inconsapevole alla caciara generale? È possibile dunque e a quali condizioni una intersoggettività creativa, che cioè porti più performer a conseguire gli esiti positivi di bellezza e di chiarezza di uno stile voluto, pensato e sentito insieme? La prima seria questione che riguarda la possibilità di un improvvisare ben strutturato è quella della verticalità. Tra esseri umani non si può infatti stabilire comunicazione di alcunché senza una psichicità profonda, dalla quale emerga, nel corso della comunicazione stessa, l’espressione esistenzialmente significativa e del tutto personale del performer in essa coinvolto. Esistono a questo proposito studi sperimentali interessanti: vorrei citare tra tutti il “modello improvvisativo di Pressing” (5), nel quale appare con chiarezza come nell’interazione improvvisativa vengano messi in gioco non solo i suoni degli altri performer e il contesto ambientale, ma anche gli scopi artistici ricercati (“goal”) e la memoria (“memory”), dunque la psichicità del performer stesso. Ma proprio a questo proposito diviene allora assai rilevante la teoria estetica di Pareyson, proprio perché essa ha il pregio di essere un’attenta riflessione sulla creatività artistica dal lato della produzione. Ciò che più interessa sono due cose: che essa introduce un concetto dinamico di produttività o formatività artistica, e che questa stessa formatività nasce da quella che Pareyson chiama l’intenzionalità formativa, mostrando come il formare, nell’arte, derivi direttamente dalla spiritualità complessiva e profonda del soggetto formante. Nell’arte, diversamente che in altre pratiche umane, si tratta di una poiesi pura, dice Pareyson, di una formatività pura nel senso che l’unico criterio della riuscita dell’opera consiste nell’“adeguazione dell’opera con se stessa” (6). Questo aspetto, che sembrerebbe paradossale nella sua assolutezza, acquista invece tutto il suo senso se viene correlato e integrato col fatto che chi dètta all’artista il criterio di questo fare è l’emersione spontanea della sua spiritualità, la quale investe tutta una tendenza profonda al formare, e al formare in quel certo modo, che Pareyson definisce appunto “intenzione formativa”. Di qui anzi nasce l’irripetibilità, l’unicità dello stile, nel quale converge “l’intera spiritualità e umanità ed esperienza d’una persona” (7). Come si vede, il concetto di stile in Pareyson è fortemente collegato con le istanze esistenziali della sua filosofia. Lo stile si forma e matura a seguito di tutto un lavorìo di germi, spunti e tentativi che conducono, quasi presagi, alla riuscita, cioè all’opera. Tra le personalità del ventesimo secolo più vicine ad una prassi compositiva similare va segnalato Giacinto Scelsi. Il cui comporre, almeno a partire da un certo periodo in avanti, non può essere inquadrato in un paradigma compositivo tradizionale, né sul piano dei contenuti sonori, né su quello dei procedimenti adottati: alimentando tra l’altro proprio per questo approccio del tutto nuovo ed inusuale al comporre le note polemiche sul fatto che altri avrebbero «scritto» le sue partiture. Le partiture di Scelsi sono certo per la maggior parte «scritte», ma solo a seguito di un grande lavoro suo personale dapprima quasi “divinatorio” (8), poi però messo a punto in stretta collaborazione con alcuni interpreti preferiti, e infine “fissate” su carta. Questa scrittura a posteriori è uno dei segnali principali di un nuovo modo di pensare la musica, di cui Scelsi può essere considerato senz’altro un antesignano, del resto in compagnia di figure assai significative come John Cage, Franco Evangelisti, Luigi Nono. L’intenzionalità formativa descritta da Pareyson sembra molto vicina alla verticalità voluta da Scelsi, il quale intende lucidamente contrapporsi all’orizzontalità di un modo di improvvisare che egli definisce come occidentale. Le seguenti parole delineano al meglio la sua chiarezza di idee a questo proposito e descrivono molto bene il suo approccio ad un comporre improvvisativo «a posteriori»: “(…) lei [la violoncellista Victoria Parr] non aveva mai unito la meditazione e la musica, trovando impossibile meditare e nel contempo suonare. Le spiegai come ciò poteva essere fatto, e un giorno le proposi di improvvisare insieme: lei al violoncello, io al pianoforte – a condizione però di non ascoltare l’altro, di non seguire in nessun modo l’altro, di suonare indipendentemente quello che veniva, senza ascoltarci e neppure pensare a quanto l’altro suonava contemporaneamente, bensì concentrandoci ambedue sul suo Maestro. Registrai due di queste improvvisazioni, piuttosto belle, e, poiché erano abbastanza semplici, le trascrissi. (…) Avrei voluto improvvisare in questo modo con Michiko Hirayama e Francis-­‐Marie Uitti, due delle mie eccellenti interpreti. Ma esse erano troppo abituate ad improvvisare in modo occidentale, cioè ascoltando i compagni e quindi stabilendo il contatto solo orizzontalmente e non verticalmente. In questo modo si può talvolta avere un risultato artistico ed acustico interessante, ma è sempre aleatorio, e ciò, in ogni caso, è molto lontano dal mio modo di pensare e di far musica” (9). Si consideri anche quanto Scelsi scrive in un saggio del 1944, “Sens de la musique”, dove parla di immagini psichiche che sono all’origine di pulsioni ritmiche, andamenti melodici e armonici (10). Secondo Scelsi, da quattro elementi fondamentali – ritmo, affettività, intelletto, psichismo – si producono sensazioni, emozioni, stati psichici che sarebbero vere e proprie “immagini virtuali”: “Non è dunque privo di giustificazione il fatto di utilizzare la parola ‘immagine’ a proposito della musica. (…) essa esprime una gran parte, forse la maggiore, delle immagini prodotte nella coscienza dalle forze creatrici” (11). E aggiunge: “Diciamo per concludere che ogni espressione d’arte non è altro che la proiezione in una materia verbale, sonora o plastica, delle immagini stabilite [créées] dagli elementi fondamentali” (12) . Ecco perché si può parlare di verticalità a proposito dell’approccio scelsiano, di una verticalità non tanto di tipo ‘mistico’, ma rivolta piuttosto a far emergere dal profondo tutto un universo ‘immaginativo’, che comunque viene filtrato da ciò che egli chiama intelletto, in quanto uno dei quattro «elementi fondamentali». La vicinanza con Pareyson non potrebbe essere maggiore: per quest’ultimo infatti l’operazione artistica interessa in quanto attività formativa in atto, e formativa a seguito di una spiritualità personale e concreta, che viene proiettata (così anche Scelsi) su una materia che diventa estremamente significativa proprio perché tra essa e la volontà-­‐intenzione formativa sussiste un rapporto di reciprocità. Pareyson è molto preciso su questo punto, e dice che “la scelta d’una materia e il definirsi di un’intenzione formativa avvengono insieme” (13). E ancora: “Il processo di formazione di un’opera d’arte comincia solo quando l’intenzione formativa si definisce nell’atto stesso che una materia è assunta. L’intenzione formativa sorge solo quando cerca e reclama, anzi sceglie e adotta la sua materia (…)” (14). Non a caso Pareyson conclude che nell’arte “si tratta, insomma, dell’intera vita della persona”, di un singolarissimo ethos, di una irripetibile Weltanschauung (15). Scelsi quindi assumeva un certo atteggiamento nei confronti dell’estemporaneità compositiva, come nel caso di Victoria Parr, a seguito di un’idea precisa, ben formulata già nel suo saggio del 1944. Il senso della musica sarebbe prodotto da un convergere dell’intelletto, che porta ad una razionalità costruttiva, con immagini, la cui emersione investe l’emozione, l’affettività, il profondo. Questa verticalità scelsiana ha il carattere di un’origine profonda e genetica: Scelsi afferma infatti con chiarezza che i contorni di questa dimensione possono essere afferrati solo tramite “immagini prodotte nella coscienza”, le quali sono però “di origine oscura” e, dopo essere state filtrate dal “subconscio”, “si manifestano in seguito con spontanea risonanza” (16). L’origine di queste immagini è per Scelsi ‘oscura’, infatti non è molto chiara nel contesto del saggio scelsiano, oscillando tra il dinamismo vitale di sensazioni ed emozioni, immagini psichiche ed affettive, subconscio e intelletto costruttivo. L’origine dell’immagine sembra però anteriore allo psichismo, dato che da essa nascono, in quanto immagini appunto, sensazioni, emozioni e stati psichici: insomma non si tratta di una dimensione psichica inconscia, ma comunque di una dimensione anteriore a qualsiasi coscienza. Vorrei attirare l’attenzione sul fatto davvero notevole che Scelsi individua qui, anche se in modo alquanto confuso, una dimensione trascendentale della prassi compositiva. Scelsi non è mai stato considerato un «improvvisatore», nel senso che si dava appunto a questo termine negli anni Cinquanta – Settanta. Anzi, come accennavo, qualcuno ha voluto avviare una polemica, pretendendo di aver “scritto” lui le partiture di Scelsi (17). Eppure non c’è dubbio che l’«improvvisazione», sia pure in un’accezione del tutto diversa da quella allora corrente, costituisse una componente importante della sua prassi compositiva. Se infatti si pone attenzione al modo tutto particolare con cui egli elaborava le sue partiture, approntandone una versione scritta solo dopo un lungo lavoro di ‘divinazione’ contemplativo-­‐compositiva dapprima suo personale e poi in stretta collaborazione con i suoi interpreti di fiducia, ci si può allora rendere conto che Giacinto Scelsi è uno dei primi compositori del Novecento ad adottare un nuovo pensiero musicale, in cui il compositore non è più il solo referente dell’impianto creativo autoriale di una composizione, ma si avvale di una stretta interazione con altri soggetti – interpreti, orchestratori-­‐ arrangiatori, redattori finali. Pur essendo solo parzialmente presente il carattere dell’estemporaneità, relegato al primo momento immaginativo, è fortemente presente un carattere interattivo, che rende il processo compositivo del tutto differente da quello tradizionale. Un altro compositore interessante da questo punto di vista è Luigi Nono. Anche lui non è mai stato considerato un «improvvisatore» nel senso tradizionale del termine, eppure è innegabile che egli abbia fatto un massiccio ricorso ad una prassi interattiva in molte sue partiture. È nota la sua strettissima collaborazione con alcuni interpreti, tra i quali vorrei ricordare almeno Roberto Fabbriciani (18), e tutta l’elaborazione del Prometeo è profondamente segnata dall’interazione con i sei solisti. Del resto di alcuni suoi importanti lavori non esistono partiture finite, a dimostrazione del fatto che egli componeva in stretta interazione con i “suoi” interpreti, anch’egli, come Scelsi, arrivando alla stesura della partitura solo a posteriori, dopo un lungo lavoro di elaborazione in comune con altri soggetti. I casi di Luigi Nono e Giacinto Scelsi possiedono dunque un grande interesse soprattutto per la verticalità dell’intenzione formativa, per quella dimensione cioè in cui è comunque un singolo compositore colui che assume il ruolo di principale referente e autore del discorso compositivo. Essi non hanno mai personalmente improvvisato dal vivo, non hanno mai partecipato ai pur numerosi gruppi di improvvisazione operativi in quegli anni (19). Non a caso i loro lavori si qualificano in quanto opere compiute nel senso tradizionale del termine, anche se elaborati nel modo tutto particolare che ho esposto. Se però la caratteristica saliente di un nuovo paradigma improvvisativo è l’elaborazione interattiva di un’opera tra più soggetti, sia pure in modo non estemporaneo, allora essi rientrano a pieno titolo in un nuovo modo di concepire e praticare il pensiero musicale, che mette al centro, accanto al lavoro su ‘modelli’ e alla scrittura a posteriori delle partiture, appunto l’interazione tra soggetti, non più cioè separando il momento poietico da quello estesico, come invece avviene nel tradizionale schema interpretativo della creazione musicale. Dove invece sicuramente si può parlare di interattività nel senso pieno del termine è a proposito del ‘gruppo’ di improvvisazione, che prevede appunto all’opera più soggetti, tutti ugualmente ‘compositori-­‐autori’ di un decorso compositivo esercitato in modo interattivo e performativo, cioè del tutto estemporaneo e all’istante. Qui improvvisare vuol dire realizzare una prassi musicale dotata di orizzontalità, grazie alla quale i soggetti partecipanti trovino il modo di costruire un discorso comune. Ma che ne è allora della verticalità, dello stile come lo intende Pareyson? Essa va del tutto persa, come pensava Scelsi, sacrificata alla dimensione collettiva, o anche qui si può parlare di composizione in senso forte, proprio in quanto discorso strutturato, anche se all’istante? In altre parole: il fatto che più individui simultaneamente partecipino ad un’attività formativa ‘pura’ può risultare da una intenzione formativa plurale, più complessa e diversa dalle intenzionalità singole, ma in cui esse si qualificano e riconoscono? Mentre nel caso del singolo artista è chiaro il rapporto tra forma formante e forma formata, in che modo si configura la forma formante (20) quando sono coinvolte più personalità formative? Inutile dire che sarebbe davvero grave se lo stile andasse perso, e con lui il carattere di espressione esistenziale dell’espressività in corso. Al concetto di pura formatività introdotto da Pareyson, di un “fare che «fa» inventando il «modo di fare»”, e quindi còlto nella sua dinamicità come poiesi che va svolgendosi e determinandosi nell’atto e nel corso del suo farsi, nel caso del comporre di gruppo bisogna dunque aggiungere due elementi: l’estemporaneità e l’interattività istantanea, cioè la simultanea istantaneità in quanto opera formata dell’invenzione e della realizzazione di questo fare che si va facendo, e ciò vuol dire mantenere in tutta la sua pienezza il contributo di ogni verticalità immaginativa personale dei soggetti compresenti, in quanto forma formante; ma, dovendosi affermare una dinamica di gruppo, ciò comporta al tempo stesso di stabilire tra i soggetti che si percepiscano come ‘gruppo’, cioè come un intero e una totalità, una tensione formativa intersoggettiva, e quindi una forma formante plurale. Ciò è reso possibile da una “auto-­‐ ed etero-­‐oggettivazione nella reciprocità”, come osserva Marco Ivaldo, la cui radice consiste nel fatto che “Pensando il mio io distinguo da me, oggettivandolo, l’io dell’altro, sapendo contemporaneamente (nel pensiero) che egli effettua lo stesso procedimento di oggettivazione nei confronti del mio io” (21). «Se debbono in generale esservi uomini, è necessario che siano più» aveva detto Fichte, e infatti, come dice Aldo Masullo, “l’essere del soggetto è appunto il suo esserci e non può essere altro; è il suo essere nel mondo, in rapporto con altri soggetti” (22). Marco Ivaldo deduce il carattere di “oggettivazione nella reciprocità” dal concetto fichtiano di totalità di individui, in quanto luogo trascendentale da cui si origina ogni coscienza. Scelsi si riferisce probabilmente a questo luogo trascendentale quando parla di “forze creatrici”, di “verticalità”, di “immagini”. Il concetto di intersoggettività trascendentale è infatti di primaria importanza, in quanto si trova qui la possibilità genetica di una forma formante plurale: che più individui si scoprano cioè sotto un certo aspetto in relazione di reciprocità, e per questo formino una totalità, un gruppo in grado di stabilire rapporti non effimeri e non casuali di co‐operatività. L’intersoggettività trascendentale è insomma il luogo, come lo chiama Ivaldo, della determinabilità di una tensione formativa comune, da cui si origina quella determinatezza che porta alla formatività del gruppo in quanto particolare soggetto intersoggettivo. Si sviluppa da qui l’interattività del circuito comunicativo improvvisativo, come reciprocità vera e complessa, consistente nel co‐sentire e quindi nel porsi scopi, esiti e metodologie condivise, dando luogo perciò ad una formatività dinamica pura ma di gruppo, poi esercitata in maniera estemporanea. Il gruppo di improvvisazione, se è veramente tale, non è quindi un’accozzaglia di persone che suonano o una semplice sommatoria di componenti singole, ma consiste in un approccio del tutto particolare alla formatività compositiva, in quanto origina il suo insieme da una forma formante plurale ed attua la sua prassi creativa elaborando una serie di scelte sonore e costruttive dettate da un co-­‐sentire coscientemente coltivato, che può dunque definirsi, come ho già detto altrove, un comporre interattivo (23), ed è quindi un comporre dotato di una sua propria e particolare specificità. Da questo punto di vista i metodi introdotti da Evangelisti a proposito del GINC rappresentano un ottimo esempio di come un ‘gruppo’ possa arrivare ad essere davvero un gruppo­‐totalità. Al centro di questo lavoro si trovano le idee di una formatività dinamica intersoggettiva e di un co‐sentire sviluppato con metodo: Evangelisti era infatti solito ripetere che, per il ristabilirsi di quella “magia (…) insita in ogni processo artistico”, diventava assolutamente necessario sostituire le ‘relazioni tra suoni’ con le ‘relazioni tra persone’ che suonano. Solo con questa rigorosa impostazione, secondo Evangelisti, il gruppo riusciva ad “uscire dai limiti” del già noto e ad aprire “l’orizzonte di un nuovo sistema” (24). Ma a questo punto bisogna compiere un passo ulteriore, ed approfondire il termine «trascendentale». La trascendentalità della duplice dimensione verticale‐orizzontale di cui ho parlato può infatti validamente richiamare il sistema della ragione di cui parla Marco Ivaldo cogliendo la ragione come fare intuentesi in quanto fare, come pensiero che si intuisce mentre si va facendo, factum fiens, non factum factum (25). Il “sistema della ragione” si stabilisce ad un livello trascendentale, cioè anteriore ad ogni coscienza, in quanto luogo unitario da cui poi si irradiano come pura potenzialità le due ‘direzioni’: quella morale, del Sollen, dell’impulso profondo – legge dell’autonomia‐libertà; e quella teoretica, dello schematismo che porta a configurare un mondo e la sua conoscenza. Ivaldo mette così in evidenza la centralità della ragione pratica nel sistema trascendentale della ragione. Nel parlare di un concetto adeguato di improvvisazione, nel senso di un comporre interattivo, ho mostrato come ambedue le dimensioni verticale‐orizzontale agiscano in modo paradigmatico nella formatività compositiva. Sul versante dell’impulso si apre una verticalità, come relazione da stabilire con immagini e modelli che sorgono dal profondo ‐ e questo è un piano schiettamente personale e intra‐soggettivo, anche se geneticamente sempre discendente dalla potenzialità della dimensione interna che abbiamo definito come oggettivazione nella reciprocità. Sul versante teoretico si apre invece il gioco orizzontale degli aspetti percettivi, quel gioco di feedback incrociati e reciproci come concreto interscambio inter‐soggettivo e inter‐personale, comunque anch’esso geneticamente irradiantesi dall’oggettivazione nella reciprocità, in quanto intersoggettività trascendentale. Ma la semplice giustapposizione delle due dimensioni verticale/orizzontale non è ancora sufficiente a configurare nella sua pienezza l’interattività della prassi compositiva. Similmente a quanto avviene nel sistema trascendentale della ragione, del cogliersi ricorsivo della ragione in quanto factum fiens, così anche il comporre interattivo richiede l’instaurarsi di una dinamica ricorsiva, cogliendosi in quanto attuante, e quindi intrecciando consapevolmente le due dimensioni. Soltanto così esso sarebbe davvero nuovo e libero. In altre parole si tratterebbe di un agire performativo estemporaneo che vada formando in sé, oltre al suonare tout court, ma simultaneamente al suonare, anche lo sviluppo di scopi, esiti e metodologie operative che i partecipanti sentano come propri e insieme comuni, che convincano e soddisfino cioè i partecipanti stessi permettendo loro di configurare all’istante esiti formativi di “bellezza” compiuta, portando quindi ad una pienezza, compiutezza, gratificazione. Si tratta di una bellezza dinamica, non staticamente oggettuale, che individua il suo senso proprio all’interno del dinamismo stesso, nel suo stabilirsi vissuto dai compartecipanti come una interpersonalità positiva e produttiva. Un pensiero musicale davvero nuovo non può che essere interattivo, consistendo in un “cortocircuito” istantaneo del suonare performativo e interpersonale, della formazione concreta cioè di esiti forme e oggetti sonori, con la simultanea intercettazione e scelta di scopi e metodologie produttive: questa sarebbe la “magia” di cui parlava Evangelisti. Ma questo intreccio deve presupporre una dimensione originaria, non concettualizzabile e perciò trascendentale, che è l’oggettivazione nella reciprocità, o intersoggettività trascendentale.

Bisogna infine chiarire che il pensiero musicale richiede una coscienza già configurata, che esso si trova cioè su un piano applicativo, ponendosi quindi col sistema dell’intersoggettività trascendentale negli stessi rapporti di un qualunque altro sapere derivato; in conseguenza la ricorsività in esso esercitata, come consapevolezza metodologica e stilistica del fare nell’atto stesso in cui il fare viene compiuto, costituisce soltanto un’analogia col discorso propriamente filosofico. È importante tenere ben presente il rapporto tra i due livelli, quello trascendentale e quello applicativo, tenendoli accuratamene distinti: per lo stesso Fichte la filosofia comportava anche un fare, che completava il momento speculativo, e che costituisce ancora uno degli aspetti più innovativi del suo filsofare. Osserva infatti Alessandro Bertinetto che “Fichte distingue il sapere ordinario della coscienza empirica (…) da quello trascendentale della ‘Dottrina della Scienza’”, il quale “parla di qualcosa che è prodotto nell’atto stesso del parlarne”, per cui “dire e fare della ‘Dottrina della Scienza’ coincidono” (26). Il livello trascendentale della ricorsività filosofica è dunque qualcosa a cui la ricorsività di cui parlo, della formatività compositiva, può solo ispirarsi; ma grazie ad esso si diviene consapevoli che anche nel comporre è attiva una dimensione trascendentale di “oggettivazione nella reciprocità”. Questa “intersoggettività trascendentale” è il “luogo” genetico profondo di una determinabilità da cui poi si irradiano le due dimensioni che, intrecciandosi e sovrapponendosi, portano ai processi formativi concreti: da un lato l’impulso immaginifico‐verticale, dall’altro la profonda esigenza di una pluri‐formatività orizzontale ed estemporanea, di una performatività che avvenga cioè sub specie intersoggettiva, esercitata in un contesto di vivace attualità. Dal primo nascerebbe l’elezione delle varie materie e modalità stilistiche in cui incarnare l’esigenza formativa ‘pura’, dall’altro l’atto formativo concreto, in modo che esso avvenga a seguito di una interazione tra soggetti che scambievolmente si riconoscano come portatori di una tale esigenza formativa. Queste due esigenze profonde, che ho definito come verticalità e orizzontalità, nascono insieme e insieme diventano produttive, appunto come inestricabilità verticale+orizzontale del formare dinamico. Si tratterebbe dunque di una ricorsività plurale. Questo luogo stilistico è trascendentale per il fare compositivo, per cui le “immagini” di cui si parla non sono introspezioni di tipo psicologico o psicoanalitico, né è questione di una vaga spiritualità o di una immaginazione ‘drogata’: l’arte possiede una sua specificità, anche quando viene esercitata simultaneamente ed estemporaneamente da più soggetti. Il comporre interattivo, cioè in gruppo, diventa un fare compositivamente libero: libero perché basato su una ricorsività esplicita e consapevole dello stesso fare, e quindi intersoggettivamente formante ed estemporaneo insieme, dunque improvvisativo in un senso nuovo, in cui la novità è data almeno dalla lucida consapevolezza con la quale il processo formativo viene attuato all’istante, che si traduce nella compiutezza dell’opera che ne risulta. Ed è libero proprio perché esso consiste nel dedicarsi a un compito che emerge da una immaginazione profonda, il quale viene attuato mediante le modalità (formative) che esso stesso richiede. I performer assumono liberamente il compito che sentono come il loro, e lo realizzano secondo norme e regole che essi stessi hanno trovato collettivamente nel modo quasi divinatorio che si è loro imposto. In questo senso l’accettazione e l’applicazione del compito e della normatività, la realizzazione cioè dell’opera compiuta, diventano un riferimento etico tanto più importante perché sono il risultato di una ‘scoperta’ che gli artisti stessi decidono se e come realizzare, senza alcuna imposizione dall’esterno. Vorrei spingermi a dire che un comporre nuovo non può che essere improvvisativo e interattivo (nel senso finora spiegato), in quanto prassi compositiva necessaria per lo stabilirsi di una nuova bellezza, la quale non può che avvenire nell’estemporaneità di relazioni interpersonali che siano in grado non solo di interagire, ma anche di sentirsi come totalità, a seguito di tutto un lavoro di elaborazione comune. Qui si apre davvero il nuovo percorso di un’operatività compositiva concreta, per cui non esiterei a definire Nono, Scelsi ed Evangelisti come i «profeti» di una nuova immaginazione formativa musicale, in grado di produrre una nuova bellezza: a patto di intendere per bellezza non soltanto la contemplazione di un’opera compiuta, ma una formatività in fieri che produca nella dinamicità del suo attuarsi un senso di pienezza, di buona comunicatività, di soddisfazione derivante da una qualità insieme intenzionale e interattiva che si stabilisce tra persone che agiscono nella simultaneità, in grado cioè di mantenere il carattere di formatività in atto. Un agire formativo ‘puro’ nell’atto stesso del suo farsi dovrebbe sentirsi anche, in senso ricorsivo e dunque allo stesso tempo, consapevole di ciò che va compiendo tanto nell’orizzontalità dello scambio intersoggettivo quanto nella verticalità dell’emersione di immagini mnemoniche, scopi poetici, materiali e metodi applicativi condivisi. Non è secondario che, come esito dell’esigenza formante e dell’interscambio, si consegua una riuscita nel senso di Pareyson: un’opera compiuta, cioè dotata di compiutezza formale, ma compiuta estemporaneamente e collettivamente. Una forma formata dunque, ma esito della dinamica di una forma formante plurale e libera perché cosciente degli scopi e dei mezzi, nella quale comunque l’aspetto etico della libertà rinasca compiutamente in quello estetico. Questo sarebbe finalmente un comporre davvero interattivo e come tale pienamente strutturante nell’estemporaneità, saldamente radicato nella piena coscienza delle sue radici immaginifiche ma anche concretamente attuativo nella realtà contestuale, e dunque davvero libero.

NOTE

1 Nel senso di quanto sostiene Thomas S. Kuhn nel suo celebre studio La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 19784, in part. cap. V.

2 Così in Nattiez, Musicologia generale e semiologia, EDT, Torino 1989, p. 9. Si noti che lo stesso Nattiez subito dopo introduce la possibilità di una convergenza dei due momenti, ma qui ci si riferisce unicamente all’atto compositivo.

3 Improvvisazione oggi, a cura di Alessandro Sbordoni, LIM, Lucca 2014.

4 Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, Milano, Sansoni 19743, pp. 59 e 91.

5 Riportato in Vincenzo Caporaletti, I processi improvvisativi nella musica, LIM, Lucca 2005, p. 34.

6 Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, cit., p.67. 7 ivi, p. 29.

7 Ivi, p. 29.

8 Esistono importanti testimonianze in questo senso, tra cui spicca quella di Michiko Hirayama, importante cantante e interprete di Scelsi, che riferisce come egli passasse nottate intere a improvvisare e registrare al pianoforte o alle ondioline. L’Archivio Scelsi conserva più di 700 nastri da lui registrati in questo modo.

9 Giacinto Scelsi, Il sogno 101, a cura di Luciano Martinis e Alessandra Carlotta Pellegrini, Quodlibet, Macerata 2010, pp.359-­‐360, sott. mie.

10 Giacinto Scelsi, Sens de la musique, in Les anges sont ailleurs…, par Sharon Kanakh, Actes Sud, 2006, p. 94.

11 Ivi, p. 90.

12 Ivi, p. 96.

13 Luigi Pareyson, Estetica. Teoria della formatività, cit., p. 44.

14 Ivi, pp. 44-­‐45, sott. mie.

15 Ivi, p. 26.

16 Giacinto Scelsi, Sens de la musique, cit., p. 92.

17 Vieri Tosatti, Scelsi c’est moi, in Giornale della Musica, gennaio 1989. Da allora la discussione su questa pretesa anomalia scelsiana, che non può che essere tale se considerata secondo una concezione tradizionale del comporre, si è notevolmente allargata anche in ambito internazionale: si veda ad es. Giacinto Scelsi. A soundtrack for Radical Traditionalism, di Christopher Pankhurst, www.counter-­‐currents.com, in cui l’“inusuale metodo compositivo” viene attribuito al suo “carattere aristocratico”.

18 Proprio Roberto Fabbriciani ricordava, in un colloquio personale (dicembre 2014), come in occasione della prima esecuzione di Omaggio a Kurtag si fosse costituito un ‘gruppo di improvvisazione’ formato da lui stesso, Ciro Scarponi e Giancarlo Schiaffini, «diretto» (!) da Luigi Nono: ciò ancora prima che venisse scritta una partitura, unicamente prendendo a «modello» la musica di Gyorgy Kurtag.

19 Per avere un’idea della quantità di gruppi dediti all’improvvisazione soltanto nella Roma degli anni Sessanta-­‐ Settanta si veda, di Giovanni Guaccero, L’improvvisazione nelle avanguardie musicali – Roma, 1965-1978, Aracne, Roma 2013, da cui emerge come il fenomeno improvvisativo all’epoca fosse trasversale rispetto a più generi musicali.

20 Osserva Pareyson che la forma formante è un’anticipazione, un presentimento dell’opera in quanto forma formata, che però possiede una efficacia operativa, in quanto orienta con certezza le scelte, e quindi costituisce la “regola immanente d’un singolo processo”. Estetica. Teoria della formatività, cit., p. 75.

21 Marco Ivaldo, “I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte”, Bibliopolis, Napoli 1987.

22 Aldo Masullo, Lezioni sull’intersoggettività, Editoriale Scientifica, Napoli 2005, p. 67.

23 Alessandro Sbordoni, “Comporre interattivo. Una valida prospettiva”, in Improvvisare oggi, cit.

24 Franco Evangelisti, Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro, Semar ed., Roma 1991, pp. 67 e 71.

25 Marco Ivaldo, Ragione pratica. Kant, Reinhold, Fichte, Edizioni ETS, Pisa 2012, p. 328.

26 Alessandro Bertinetto, La forza dell’immagine. Argomentazione trascendentale e ricorsività nella filosofia di J. G. Fichte, MIMESIS, Milano -­‐ Udine 2010, p. 213.