Scurti AT the beginning

Scurti, “At the beginning”

At the beginning …

I suoni della vicinanza

– Germano Scurti

“Un pezzo di musica assomiglia per certi aspetti a un album di fotografie, nel senso che espone in circostanze mutevoli la vita della sua idea originaria, che è il motivo di base” (Arnold Schönberg, Elementi di composizione musicale).

 

E’ singolare che Schönberg abbia scelto la metafora dell’immagine fotografica, della “copia”, per descrivere l’articolazione vitale del “motivo di base” in musica che è un linguaggio così privo di denotazione. Singolare poi perché lo svolgersi di uno “sviluppo” Schönberg sembra porlo al tempo passato, fermato nella “fotografia”, sempre già concluso nell’istante stesso in cui affiora sulla carta fotografica.

Eppure, forse, è proprio da qui, da questo apparente paradosso, che si possono derivare alcune delle “tracce” fondamentali di quel rapporto tra il vicino e il lontano che la “durata” temporale in musica dispiega. Un paesaggio tutto da inventare, dal punto di vista compositivo, all’interno di quella complessa e “visionaria” dialettica che si instaura tra heimlich e unheimlich, tra il familiare e lo straniero.

Ci sono una pluralità di “tracce”, di segni di istanti già trascorsi, in Sirius che ne definiscono la “durata”, l’intervallo temporale che congiunge e che allo stesso tempo marca la distanza tra “l’idea originaria” e “le sue circostanze mutevoli” – distanza che, come avremo modo di vedere, nel caso di Sirius separa e unisce “l’idea originaria” stessa dal presente in cui l’autore si colloca. Alcune di queste “impronte” si riferiscono in qualche modo a dimensioni “originarie”. E in effetti sembra quasi un lavoro sugli “inizi” l’opera di Alessandro Sbordoni Sirius. Concerto per bayan e orchestra.

Il primo lo rintracciamo nel titolo stesso. Sirius si riferisce al nome del primo bayan costruito nel mondo occidentale nel 1971-72: il bayan Sirius Pigini (prodotto in Italia) che a tutt’oggi conserva questo nome e che insieme allo Jupiter russo è il bayan più diffuso al mondo.

Dopo il primo concerto per fisarmonica e orchestra (per fisarmonica classica con il manuale sinistro a nove file, non bayan) ad opera del danese Ole Schmidt nel 1958, Symphonic Fantasy and Allegro (Op.20), dopo i due concerti di Salvatore Sciarrino per fisarmonica e orchestra, Il giornale della necropoli (2001), Storia di altre storie (2004) e l’ultimo concerto per bayan e orchestra di Sofia Gubaidulina, Under the Sign of Scorpio. Variations on Six Hexachords for Bayan And Large Orchestra (2003), Sirius è il primo concerto scritto da un autore italiano specificamente dedicato al bayan solista con orchestra.

Dal punto di vista estetico invece il vero e proprio “inizio”, la “traccia” che definisce “l’idea originaria”, che connota in maniera piuttosto evidente l’intero lavoro, si riferisce all’uso di una delle prassi più fondamentali, primigenie, della musica occidentale: il canto gregoriano, in particolare la sua monodia. E’ esplicita infatti l’organizzazione dell’intero lavoro attorno a un centro monodico che sviluppa una condotta motivica appunto a carattere “unisonico” – con il solo rinforzo dell’ottava, che, come sappiamo, nella serie degli armonici, è l’intervallo più vicino all’unisono – con il bayan solista che svolge quasi le funzioni di un cantor.

Sbordoni in questo sembra prendere molto sul serio l’affermazione di Schönberg sul “suono fondamentale”, affermazione secondo la quale “Il futuro avrebbe certamente provato che è pur sempre attiva una forza centralizzante, paragonabile alla gravitazione esercitata dalla nota fondamentale”. Ma il suono fondamentale come forza centralizzante qui si configura in un rapporto intervallare, nello specifico in una relazione di vicinanza. I rapporti tra i suoni qui dispiegano appunto uno spazio della vicinanza. Uno spazio in cui agisce non certo l’affinità tonale ma l’identità di altezza, o meglio, un unico suono che si frammenta nelle sue componenti, in quelle differenze di intensità che vanno a definire la componente timbrica come uno degli aspetti “interiori” del suono. Il segno archetipico di un rituale comunitario, qual è la monodia medievale, si offre dunque all’esplorazione del rapporto di vicinanza tra i suoni, all’articolazione delle diverse sfumature che si aprono all’interno della relazione tra suoni nominalmente identici.

Questo rapporto di uguaglianza e di vicinanza tra suoni della stessa frequenza come elemento di connessione che sviluppa un movimento centripeto, che attira verso di sé, definisce tanto la scrittura dello strumento solista, il rapporto tra i diversi manuali (tastiere) che lo compongono, i suoi giochi timbrici, le risonanze e le eterofonie che produce, quanto il rapporto tra il solista e l’orchestra, che viene a connotarsi, in questi centri, a cui sempre si ritorna, non tanto nei termini di un rapporto tra “figura” (il solista) e “sfondo” (l’orchestra), quanto nei termini di una fusione volumetrica in cui è la profondità del suono che disegna lo spazio acustico. Del resto, con l’organizzazione di questi centri monodici, articolati solo da scivolamenti semitonali, Sbordoni sembra quasi recuperare l’hi-fi, “l’alta fedeltà” del paesaggio sonoro premoderno (cfr. Murray Schaffer, Il Paesaggio sonoro), con i suoi bassi livelli di “rumori ambientali”. Priva di sature sovrapposizioni, assistiamo così all’emergere dell’“impronta”, della “traccia” sonora di un suono comunitario, in cui se da una parte i segnali  acustici prioritari sono tutti in primo piano (la mera linea melodica), dall’altra la pluralità dei timbri disposti spazialmente, il “morphing timbrico”, offre la prospettiva di uno spazio austero ed espressivo, con effetti di profondità che mettono in luce una sensibilità volumetrica alquanto inedita.

Ci sembra inoltre particolarmanente consona l’iniziale citazione di Schönberg perché la “durata” interna allo sviluppo di Sirius si configura precisamente nei termini di un “album di fotografie” che articola un rapporto di vicinanza e lontananza. Non certo per le caratteristiche denotative, descrittive, figurative dell’immagine fotografica ma per la temporalità memoriale che la connota. Pensiamo prima di tutto alla stessa “idea originaria”, alla sua dimensione ieratica, che sta alla base di quest’opera: l’uso che ne viene fatto è interno alla dinamica della rammemoriazione (il ritorno del ricordo), alla capacità immaginativa del superamento di una distanza, di “far parlare”, “far risuonare” al presente la “traccia”, il segno di quell’istante già trascorso, il suo carattere fuggevole e vulnerabile. La temporalità memoriale della fotografia coincide qui con il topos della voce della lontanza.

Allo stesso modo, anche le “circostanze mutevoli dell’idea originaria” di Sirius danno seguito a una specifica “durata” memoriale. Non ci troviamo di fronte infatti ad una struttura monotematica. La materia sonora dà vita a una molteplicità di episodi in continua trasformazione. Risulta così una struttura musicale fluida, uno spazio sonoro attraverso il quale echeggiano le “tracce” di un immaginario complesso e articolato che attraversa diverse tradizioni musicali, per quanto ancorato ad alcuni punti fissi.

La monodia assume infatti un primigenio valore simbolico che dà forma a un complesso sistema di referenti semantici ed espressivi, caratterizzati dall’immediatezza comunicativa e dalla chiarezza dei contenuti. Materiali polisemici sottoposti al filtro della memoria e dell’immaginazione, che non si abbandonano a forze centrifughe, alla proliferazione multidirezionale, ma che vengono ricondotti a una logica rigorosa della polarità e del ritorno, a un congegno formale che articola la discorsività musicale, la sua “durata”, nei termini del rapporto tra vicinanza e lontananza dalla sua “idea originaria”, dal centro monodico appunto.

Le stesse funzioni armoniche sembrano rispondere a questa logica polare. Un flusso di intensità distribuite a episodi in cui la “densità volumetrica” del suono sembra procedere tra estremi opposti: al volume scarnificato della “consonanza perfetta” rappresentata dall’unisono e dall’ottava fa da contrasto un ispessimento della tessitura orchestrale in cui prevalgono gli intervalli di quarta aumentata, settima e nona. Modulazioni di ampiezza che raggiungono il suono inarmonico con l’uso di violenti e improvvisi cluster gestuali che interrompono lo sviluppo estensivo e direzionale del tempo in intensità episodiche che si fanno forza deterritorializzante.

Blocchi di sensazioni appunto che articolano una “densità volumetrica” caratterizzata da forti contrasti, come quelli che si realizzano nella successione tra una “corposa” texture accordale dell’orchestra e gli isolati interventi del bayan, tutti in qualche modo legati a una dimensione di carattere elegiaco: una semplice ed esplicita linea melodica dal suono esile accompagnata da una pulsazione regolare di accordi ripetuti sul manuale sinistro.

Tra questi si colloca un lungo episodio centrale in cui a una lenta pulsazione ritmica che passa attraverso le diverse sezioni dell’orchestra lo strumento solista risponde con l’oscillazione di un cluster nella regione acuta del manuale destro e delle triadi “quasi” perfette (dilatate dal punto di vista degli intervalli), sempre nelle regioni acute, del manuale sinistro. Un flusso esteso di intensità continua di rara luminosità caratterizzato dalla sovrapposizione verticale dell’armonico con l’inarmonico. Il bayan qui contribuisce, insieme all’intera orchestra, alla costruzione di un “piano di consistenza” sospeso, una superficie densa da cui si sprigionano e in cui si ritirano brevi linee melodiche, che nel desiderio di espressività si manifestano come nuclei di identificazione, istanze territorializzanti.

Ci appare in tutto questo una originalità senza sovvertimenti, un costruttivismo che dà una sensazione di energia positiva. In sostanza, una personale presa di posizione quella di Alessandro Sbordoni nei confronti del presente che definisce un rapporto quantomai positivo con l’espressione musicale: forse un trovato o ritrovato gusto nel fare musica, una serenità e un piacere libero da vecchie o nuove interdizioni. Una serenità che sfocia in un tono quasi “festivo” nella ricapitolazione finale di Sirius dove il pattern ritmico (un fraseggio metrico fortemente percettibile – che caratterizza in realtà tutta la “durata” di Sirius) si scatena in una sequenza di cluster e di progressioni cromatiche come un “a solo” di percussioni.

Dicevamo di una presa di posizione da parte di Sbordoni nei confronti del proprio presente, a cui corrisponde un preciso lavoro sulla temporalità, sulla “durata” caratterizzata dal dispiegamento di una poetica iper-espressiva che tende a facilitare il dialogo con l’ascoltatore attraverso una forma di “lirismo” che risulta proiettato su differenti tradizioni musicali. Tra le altre cose, una densa elaborazione di linee melodiche, spesso in primo piano, penetra il tessuto compositivo di Sirius.

In realtà, visto che temporalità memoriale di Sirius non si fa mero “sguardo interiore”, più che al lirismo come manifestazione soggettiva dell’autore e/o dell’interprete, più che alla prevalenza degli aspetti sentimentali dell’individualità, almeno dal punto di vista interpretativo-strumentale, bisognerebbe guardare, riferirsi all’“universale” dimensione espressiva dell’elegia, intesa come uno degli aspetti più fondamentali di qualsiasi atto poetico. L’archetipo espressivo del lamento umano, appunto, che non è tristezza ma rivendicazione sociale, non è dolore ma canto che si fa rito comunitario.

Al di là delle mie personali inclinazioni, mi sembra esplicito il tono più che mai elegiaco della cadenza solistica. La logica arcaica della monodia qui esplode nell’intervallo di seconda minore, in quegli stessi scivolamenti semitonali che caratterizzano l’articolazione orchestrale dei centri monodici. Nella sua arcata generale la cadenza si presenta come una sorta di “ascensione” che dal registro grave porta alle regioni acute dello strumento. Inizia appunto con uno scuro suono armonico e accordale che si scioglie in un glissato microtonale attraverso cui il bayan produce un esplicito “lamento”. Seguono trilli, tremoli e ribattuti in entrambi i manuali che oscillano tra l’unisono e le seconde minori e che richiamano l’effetto di microtonalità precedente. Raggiungiamo così il registro acuto in cui i suoni passano continuamente da una condizione di tremolio ai contorni di un ripetuto suono “a intonazione fissa”, “giocato” tra i due manuali del bayan, per finire appunto in un univoco phylum sonoro,  nella ripetizione di un unisono che sembra assumere le caratteristiche espressive di beats granulari. E’ qui, nel finale di questa cadenza, che si raggiunge il climax, l’apice, il momento culminante dell’intera “durata” di Sirius, l’articolazione creativa della sua temporalità memoriale. Il momento di estrema lontananza, prima della ricapitolazione finale, definisce il punto di congiunzione in cui arché e telos convergono, in cui appunto la dimensione ieratica della monodia medievale dà vita a una granulare sonorità “elettronica”.

Nel connotare in maniera così penetrante l’intera “durata” di Sirius, questa articolazione della logica unisonica entra in perfetta sintonia con le capacità polimorfiche del bayan. La ricchezza intertestuale di quest’opera cioè trova nel bayan, nella sua indubitabile forza evocativa, nell’attitudine ad abitare differenti tradizioni musicali, ma soprattutto nella sua capacità di coniugare il sapore arcaico del suono con le pluriformi qualità espressive della contemporaneità, uno strumento quanto mai inedito, appropriato e ricco di stimoli immaginativi. E, anche qui, dal punto di vista strettamente strumentale, ci troviamo di fronte a un rapporto di vicinanza. Una scrittura ricca di accadimenti e densa di umori che comunica una certa “visionarietà” memoriale, associata a una accesa e voluta emotività. Una sorta di “diario” personale (un “album di fotografie”), la messa in gioco di una temporalità, di una “durata”, in grado di aprirsi al “diario” dello scrivente, dello strumentista solista coinvolto. Un altro superamento della distanza appunto: la resa della figura del compositore e quella dell’interprete in due affezioni tra loro inevitabilmente collegate.

Anche su questo aspetto dunque “i vasti quartieri della memoria” non sfociano nella tradizione dello “sguardo interiore”, o meglio, nel ripiegamento su se stessi come forma di “riflusso”.

L’esplorazione dei vari aspetti strumentali invece conquista una libertà di espressione e una qualità immaginativa dai risvolti inediti, che colloca Sirius tra i principali contributi allo sviluppo della letteratura per bayan e orchestra, rendendo quanto mai vivo questo nuovo strumento.

All’esuberanza della tecnica strumentale mi sembra dunque corrispondere un movimento di estroversione che va al di là del lirismo intimista e del mero elenco di “reperti” tecnico-strumentali. A tal punto che, per quanto enfatico possa sembrare, il mio auspicio è quello che chi avrà l’onore e il piacere di suonare Sirius, come io mi appresto a fare, possa interpretarlo come un inderogabile atto di libertà.