Un comporre istantaneo

“UN COMPORRE ISTANTANEO”

Alessandro Sbordoni– luglio 2003

“UN COMPORRE ISTANTANEO”

(in occasione del libro per Aldo Clementi del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Roma – La Sapienza)

Nella seconda metà del ‘900 l’improvvisazione fece una violenta irruzione sulla scena della musica contemporanea, che allora si autodefiniva pomposamente “seconda avanguardia”, decretandone praticamente l’estinzione. Ci fu chi, come Franco Evangelisti, teorizzò addirittura la necessità “evolutiva” dell’improvvisazione, osservando che il massimo della determinazione seriale dei parametri compositivi non poteva non rovesciarsi nel suo opposto, cioè nell’indeterminatezza assoluta ovvero nell’apertura della forma: “La cosiddetta forma momentanea, o aleatoria, o mobile, o aperta, è quel particolare tipo di forma musicale, che si è sviluppata in questi ultimi anni, e che si oppose con la sua speciale maniera di essere del tutto, o in parte, “indeterminata” allo sviluppo della musica seriale, totalmente determinata” (1). Il pensiero improvvisativo contemporaneo assunse quindi al suo inizio una forte carica trasgressiva, dapprima nei confronti dell’avanguardia “ufficiale” – il serialismo cosiddetto integrale –, in un secondo momento raccogliendo le istanze allora profondamente sentite della rivolta politico-sociale-culturale sfociata negli eventi collegati al ’68. I nomi di John Cage e Cornelius Cardew potrebbero essere portati come autorevoli referenti dell’una e dell’altra attitudine, anche se tanti altri esponenti potrebbero essere ricordati, con tante differenti sfaccettature. Il fenomeno allora definito dell’”opera aperta” investì infatti negli anni Sessanta tutto il mondo della creazione artistica, non solo musicale ma anche letteraria e visiva, assumendo peraltro anche forti connotazioni sul piano della critica estetico-filosofica, aprendo un dibattito ancora oggi ricordato per la violenta passione e vastità di intenti da cui fu animato. Un discorso di ricostruzione storiografica esula però dalle presenti riflessioni, che invece vorrebbero concentrarsi piuttosto sulla consistenza e sulla validità attuale di un pensiero improvvisativo, di ciò che andrebbe chiamato con pieno diritto un comporre istantaneo. Intanto sembra doveroso ricordare come un importante margine di “apertura” sia esistito da sempre nella musica, anzi nelle musiche di tutte le tradizioni, occidentali orientali etniche, costituendo una componente fondamentale dell’operatività musicale e insomma di qualunque evento che mettesse in gioco qualche tipo di sonorità. Forse solo nella cultura musicale “colta” del sette-ottocento dell’occidente europeo ha preso il sopravvento la pretesa ad una “scrittura” totale, lucidamente ordinante tutti i parametri sonori principali – almeno le altezze, durate, dinamiche, timbri. Se invece prendiamo come riferimento un pensiero anche fortemente strutturante sotto il profilo compositivo, qual è ad esempio il pensiero formale della tradizione gregoriana, troviamo comunque un’apertura ampia dell’invenzione melodica, aperta appunto perché in grado di adattare di volta in volta formule melodiche modali preesistenti (timbri, melodie tipo, toni salmodici) con un testo sacro dotato di grande ampiezza e multiformità. Qui il gusto inventivo del compositore ha pieno agio di manifestarsi improvvisando, nonostante l’esistenza di forme “chiuse”, cioè bene individuate come genere e stile, ma aperte alle necessità della liturgia, appunto su di essa configurabili anche all’impronta. Le notazioni più antiche (adiastematiche), sbilanciate come sono sul piano ritmico, costituiscono inoltre un esempio mirabile della libertà lasciata all’interpretazione dalla tradizione orale. Una libertà molto simile si ritrova del resto nella prassi strumentale posteriore legata alla liturgia, ad esempio nelle note per l’interpretazione delle toccate frescobaldiane, che trasferiscono appunto l’approccio improvvisativo al momento esecutivo, aprendo all’interprete fondamentali libertà non solo agogiche e formali (di dinamica, taglio o prolungamento a seconda delle necessità), ma di vera e propria composizione, invitando esplicitamente all’introduzione di imitazioni, accordi, durate ad integrazione libera del testo notato. E’ noto che gradi ancora maggiori di apertura sono ancora rintracciabili nella pratica dei raga indù, o nei ritmi percussivi rituali delle culture africane, nello stesso jazz che fin dalle origini raccoglieva appunto attitudini improvvisative legate a queste ultime, individuando così una consistenza compositiva di ispirazione extraeuropea, addirittura extraoccidentale, sia pure a seguito delle ben note tristi vicende legate allo sfruttamento della schiavitù. Si può dire che l’improvvisazione venga dall’oriente, o comunque da culture altre rispetto all’occidente euro-americano? Se non può essere un caso che John Cage abbia attinto proprio alla cultura zen per formulare la sua estetica compositiva, non sembra però più sufficiente rifarsi ad una schematizzazione Oriente/Occidente, andata di moda per tanto tempo. Giova piuttosto osservare lo svilupparsi di una circolazione mondiale delle culture e una loro sempre maggiore capacità di interrelarsi, sia in senso Nord-Sud (jazz, per esempio) sia Est-Ovest (Cage, Beatles), grazie anche a possibilità tecnologiche sempre più potenti e ad uno sviluppo ormai quasi senza confini di una circolazione economica ispirata al capitalismo statunitense. Comunque stiano le cose, non c’è dubbio che una certa “globalizzazione”, pur se con un forte carattere di cosmopolitismo culturale, abbia cominciato ad affermarsi fin dagli anni Sessanta. E’ proprio da qui del resto che bisogna prendere le mosse per portare al centro dell’attenzione il concetto di comporre istantaneo. All’inizio degli anni Sessanta infatti si affacciano sulla scena musicale due fenomeni assai interessanti dal nostro punto di vista. Il primo consiste nella nascita di alcuni gruppi di improvvisazione, come il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza che fa i suoi primi concerti nel 1964, o il gruppo Musica Elettronica Viva, seguiti poi da molti altri gruppi in tutto il mondo. Il secondo è dato dall’affermarsi della cosiddetta composizione aleatoria, consistente nella predisposizione di partiture contenenti un’apertura notevole, digradante dalla possibilità di scelta di alcuni parametri fino ad un’interpretazione totalmente libera di un grafismo spesso totalmente altro rispetto alla dimensione sonora. Tale svincolarsi del segno grafico dal suono, fenomeno centrale della musica cosiddetta aleatoria, è ben testimoniato da Domenico Guaccero, il quale osserva che “(…) la grafia musicale può passare ed è passata da notazione dell’immagine musicale per il pratico scopo di segnare qualcosa, a condizione determinante della sintassi musicale, a segno con valore indipendente da un possibile corrispondente fonico o, addirittura, da qualsiasi corrispondente fonico. E tale conquista dell’autonomia grafica possiamo osservarla nel momento in cui avviene un mutamento di «ascolto musicale», anzi in coincidenza del mutamento da ascolto a lettura di un testo scritto” (2). L’impasse in cui era venuta a trovarsi la musica contemporanea in quegli anni era stata portata all’evidenza anche da Adorno, il quale nel 1955 aveva denunciato l’”invecchiamento della musica moderna” (3), ma già Walter Benjamin molti anni prima, nel suo fondamentale saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” (4), aveva colto il cuore del problema, segnalando l’esistenza di una discrepanza nel mondo moderno tra il momento della creazione artistica e quello della sua fruizione. La questione che la musica “aperta” poneva al centro dell’attenzione, davvero sostanziale e tuttora attuale, era in fin dei conti l’opportunità o meno della sopravvivenza di una figura di compositore ancora fortemente caratterizzato da un’attitudine genialmente individualistica, visto cioè come “creatore” assoluto, unico mediatore in grado di trasformare, in modo quasi sciamanico, materiali bruti in oggetti o composizioni di altissimo artigianato. Le avanguardie storiche del Novecento, sia la prima sia la seconda, in fondo lasciavano intatta una figura di artista “ispirato” e geniale affermatasi sin dal Rinascimento e giunta a piena maturazione col Romanticismo. Ancora oggi l’immaginario collettivo concede al compositore “genio e sregolatezza”, ponendolo sull’altare dell’”arte”, dunque sollevandolo dal terreno solido delle “certezze” del quotidiano. E’ senz’altro vero che carmina non dant panem, ma forse soprattutto perché un siffatto tipo di creatività solipsistica ed egocentrata si allontana sempre di più dalla domanda di cultura contemporanea: è sotto gli occhi di tutti come si stiano affermando nella cultura massmediatica altre attitudini creative, caratterizzate da un grande bisogno di capacità interattiva. Gli spazi di una creatività incentrata sull’unicità dell’autore concepito come genio mediatore tra il cittadino medio e la bellezza assoluta si stanno sempre più assottigliando: la dice lunga la battaglia, che sta diventando una lotta senza quartiere, sulla libertà di scaricare canzoni dal web senza voler pagare non tanto forse i diritti d’autore, quanto le royalties delle multinazionali discografiche. Si tratterebbe soltanto di un bruto desiderio di non pagare o si nasconde qui un sorgente anelito di libertà, un anelito cioè a “comporsi” la propria musica o addirittura ad interagire creativamente con altri sul piano squisitamente musicale? (5)

Forse oggi non si va oltre ad una pretesa libertà di compilation e di scambio di canzoni, loghi e suonerie dei cellulari, ma non è detto che in un domani forse nemmeno troppo lontano questo anelito non possa tramutarsi in qualcosa di più serio e strutturato, in una creatività intermediale dotata di possibilità interattive istantanee. A questo proposito viene subito da porsi la domanda: è in grado la cultura musicale attuale di offrire gli strumenti per una creatività sonora appunto interattiva e interpersonale, sia sul piano della musica di intrattenimento sia su quello della musica d’arte, o non è ancora una cultura musicale tutta incentrata su una fruizione “passiva”, su un ascolto di opere uniche da esibire per l’eternità, come diceva Benjamin, e quindi sul relativo ruolo da “creatore unico” del compositore? Sul piano didattico della composizione, tanto per fare un esempio, la risposta non potrebbe essere che negativa. Nella stragrande maggioranza dei casi lo studio attuale della composizione consiste nell’acquisizione di “tecniche” (armonia, contrappunto, strumentazione etc.) giocate dove più dove meno sul classico o sul contemporaneo, ma nei programmi ministeriali non si trova nulla che offra allo studente la possibilità di formarsi strumenti comunicativi. Le lezioni individuali del conservatorio tendono a formare personalità egocentrate, che poi dovranno fare i conti con una realtà dove al compositore si richiedono invece sempre maggiori capacità gestionali, doti di comunicazione, esplicitazioni progettuali e via dicendo. L’acquisizione di un sapere armonico e contrappuntistico resta una condizione sicuramente necessaria, ma non più sufficiente per la formazione di un pensiero compositivo calato nella realtà socioculturale contemporanea: andando oltre le eventuali strategie di affermazione personale, non si tratta soltanto di apprendere nozioni di informatica, ma di sviluppare vere e proprie attitudini di interazione “live” con l’ambiente e con le persone, e ciò nel puro farsi della creatività compositiva. Per questo si rende sempre più necessaria all’interno degli stessi studi di composizione l’elaborazione di un pensiero compositivo dotato di istantaneità e interattività, dunque con alte caratteristiche di improvvisazione organizzata. La sensazione è insomma che il compositore “unico” perda sempre più terreno. Non perché l’attitudine al comporre non debba più essere filtrata dalla singola individualità, che anzi mantiene intatto l’alto grado di responsabilità personale riguardante la qualità delle scelte compositive, dei materiali sonori e delle relative elaborazioni. E’ però evidente come gli spazi per il tipo di creatività che può definirsi appunto dell’autore unico vadano progressivamente riducendosi, in un modo direi inesorabile, tanto che solo alcuni – pochissimi – compositori nel mondo riescono oggi a vivere soltanto della loro musica. La situazione non è nemmeno lontanamente paragonabile col passato, in cui, se pure la storia ha filtrato solo alcune figure di spicco, tuttavia erano attivi con piena professionalità un numero ben più ampio di compositori. Lo “sgomitare” e l’arte dell’autoaffermazione rimangono tra gli sport preferiti dai compositori “unici”, ma sembra evidente sia l’abissale distanza con la competizione un tempo di moda (si ricordi la leggenda del duello sul virtuosismo strumentale improvvisativo tra Muzio Clementi e Mozart) sia l’enorme sproporzione tra mezzi e risultati del lavoro di autopromozione, cui i compositori si sottopongono abitualmente. E’ vero che i settori più commerciali (il film e l’audiovisivo in genere, la canzone, l’intrattenimento) offrono spazi di gran lunga superiori rispetto alla musica “d’arte”, permettendo anche grandi quantità di lavoro e di guadagno, a patto però di minare in maniera ancora più radicale l’unicità, cioè il solipsismo dell’autore unico, costringendolo ad un altissimo livello di alienazione. Non è mia intenzione tracciare una critica socioculturale del comporre contemporaneo. Per capire però l’importanza e perfino direi l’inevitabilità per il comporre contemporaneo dell’apporto di un pensiero musicale improvvisante si rende necessario cogliere con chiarezza sostanziale almeno i contorni della situazione in cui il compositore si trova oggi ad operare, sempre naturalmente che si abbia il desiderio di mantenere un contatto con la realtà, cercando cioè di evitare che una giusta pretesa ad una qualità alta del pensiero musicale finisca per innescare fughe in avanti o nostalgici, un tempo si sarebbe detto neoromantici, ritorni dal futuro. Da questo punto di vista l’attitudine improvvisativa torna ad essere preziosa, sul piano creativo individuale come su quello interpersonale. Superando molti pregiudizi di cui essa viene fatta oggetto, spesso a causa dei suoi trascorsi trasgressivi e di happening anni Sessanta, la dimensione dell’improvvisazione e dell’apertura della forma si rivela una delle poche correnti attualmente presenti nel comporre contemporaneo in grado di trasformarsi in un vero e proprio trend, cioè in una possibilità di sviluppo quasi liberatoria rispetto ad alcune grosse difficoltà che i compositori si trovano oggi a dover affrontare. Un segnale importante viene proprio dal fatto che essa costituisce tra l’altro una delle pochissime valenze in grado di avvicinare tra loro, in un modo del tutto trasversale, “generi” e tradizioni di origine anche assai diversa. Come dicevo sopra, non è da escludersi che un jazzista, un “musicista” africano e uno indù possano trovare punti di contatto diretti, cioè davvero operativi, nella reciproca prassi “compositiva” – le virgolette sono ovviamente d’obbligo. Sarebbe sicuramente molto complicato convincere un suonatore di tamburo senegalese a studiarsi tutto il contrappunto e la fuga prima di ammetterlo a suonare con un pianista tedesco: ma nel momento in cui ci si sarà messi d’accordo sulle “formule” ritmiche e melodiche da utilizzare, sarà possibile per tutti e due cooperare musicalmente, improvvisando virtuosismi formali efficaci e arditi anche per un “occidentale bianco”. Ma è possibile tracciare un quadro delle caratteristiche di un pensiero musicale improvvisativo che vada oltre la pura e semplice istanza caotica della trasgressività, pur con tutto il rispetto per la sua importanza storica, ormai peraltro ampiamente storicizzata? Come è stato accennato, l’improvvisazione si caratterizza oggi mediante doti di istantaneità, momentaneità, interattività, intermedialità. Per istantaneità si intende il fatto che una forma musicale venga predisposta appunto all’istante, cioè momento dopo momento all’interno di una situazione data. Si gioca qui su un asse apertura-strutturazione, decidendo all’istante su quale punto di questo asse ci si va a porre, non escludendo affatto la possibilità di un livello strutturante anche elevato, o addirittura variabile all’interno di una stessa improvvisazione. E’ possibile improvvisare su un valzer già noto, eseguire cioè una forma chiusa e ben strutturata, lasciando aperti parametri come la strumentazione, la quantità di ripetizioni, il tipo di accompagnamento o altro. Si tratta insomma di agire all’impronta, ma non a casaccio, definendo il grado di apertura che si vuole introdurre in ogni parametro, istante dopo istante. Si rende necessario definire un campo di operatività dotato di normatività, schemi, confini. Non c’è gioco senza regole. Si ricordi che Evangelisti parlava di “apertura della forma”, appunto come parametro “estremo” da lasciare all’apertura, proprio per rimanere all’interno di quello che veniva chiamato il sistema tonale. Non a caso alcune improvvisazioni del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza mettevano in gioco diversi momenti storici del sistema tonale stesso. Pur lasciando però aperta la forma, può esserci comunque una forte strutturazione, come ad esempio nel jazz un giro armonico, o nelle improvvisazioni organistiche un tema dato. Un caso estremo potrebbe essere rappresentato da un astrattismo caotico e indeterminato, privo di riferimenti ritmici, armonici, tematici, quale alcuni gruppi hanno praticato. Come nel bridge si resta comunque all’interno di una “creatività con le regole” (Umberto Eco), lasciando ad altro momento la “creatività delle regole”. Poiché però ogni improvvisazione non può avvenire se non all’interno di una situazione ben precisa, col concetto di momentaneo si vuole aggiungere all’istantaneità il fatto che ogni improvvisazione è tale se esiste in quel dato momento e, almeno potenzialmente, mai più. Se una composizione, nata in modo improvvisativo– istantaneo, si assesta in una ripetitività standardizzata, divenendo sempre uguale a se stessa e valida per più situazioni successive, cessa proprio per questo fatto di essere una improvvisazione, sfumando casomai nell’alea. Il concetto di momentaneità esprime dunque una sfumatura diversa da quello di istantaneità: quest’ultima riguarda l’aspetto metodologico sostanziale grazie a cui la composizione viene predisposta, ed investe perciò direttamente le modalità di pensiero con le quali avviene la composizione. La momentaneità esprime invece un fattore di presenza nel tempo, per cui si può parlare di fenomeno improvvisativo solo definendo anche i limiti temporali di validità delle operazioni compositive effettuate e applicate nell’istante, che a quell’istante appunto si devono riferire. Istantaneità e momentaneità sono due aspetti sostanziali del comporre improvvisativo, mentre l’interattività e l’intermedialità rappresentano fattori accessori, sia pure non secondari. Si può dare certo il caso, peraltro assai frequente, di un improvvisatore che suoni da solo; ma l’aspetto più significativo del pensiero improvvisante è dato proprio da un gruppo di persone che interagiscono creativamente sul piano musicale. In questo caso il “gioco” dell’improvvisazione si fa molto più audace, il livello dell’invenzione diventa molto più ricco e virtuosistico sul piano compositivo, appunto perché all’invenzione improvvisativa tout court si aggiunge il fattore del coordinamento di più invenzioni, tutte sussunte e cooperanti nel gioco istantaneo che viene predisposto grazie ai materiali sonori e alle loro elaborazioni formali. Interattivo si intende dunque come sinonimo di interpersonale, nonostante le interpretazioni oggi date al termine tendano spesso a riferirsi ad un sovrapporsi di tecnologie per il quale invece, come si vedrà più avanti, preferirei il termine intermediale. Del resto bisogna pensare che l’interesse per una interattività interpersonale va anche oltre il puro fatto improvvisativo musicale, abbracciando fenomeni culturali assai complessi e tutto sommato nuovi, che riguardano la società attuale nel suo insieme. L’interazione permessa dalla tecnologia informatica è intesa a coinvolgere più persone interagenti in diretta, cioè simultaneamente, su una questione o un argomento di interesse comune, come ad esempio una chat. Non è detto che debba per forza trattarsi di cascami della comunicazione: tanto è vero che questa nuova forma di comunicazione, come tutto ciò che riguarda lo status sociale di Internet, è soggetta a tutti i pericoli cui è sottoposto lo status sociale di qualsiasi cittadino. Per capire che qui sono in gioco valori culturali di grande interesse, e quindi il valore e l’importanza della difesa di una comunicazione interpersonale libera, vorrei riportare una frase di Giovanni Valentini, il quale giustamente avverte: “si comincia a intravvedere, insomma, una sorta di censura digitale che potrebbe arbitrariamente includere gli ‘amici’ ed escludere invece i ‘nemici’, alimentando un flusso di informazioni a senso unico. Una sorta di dittatura della Rete (…)” (6). Sul piano squisitamente artistico, il gioco potrebbe spingersi fino a coinvolgere un gruppo di poeti, scrittori, pittori, musicisti interessati alla definizione di un’”autenticità” nuova e diversa, da esercitare “in rete” o dal vivo. Si tratterebbe di un nuovo tipo di hic et nunc, come avrebbe detto Benjamin, possibile solo con tecnologie fino ad oggi impensabili – si pensi alle potenzialità in questo senso del wireless. Si aprono così possibilità di operatività formale del tutto inedite, in cui la tecnologia, che aveva favorito l’affermarsi della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, supera e anzi tendenzialmente svuota di senso lo stesso mondo della riproducibilità tecnica. Paradossalmente la stessa tecnologia che aveva portato al superamento dell’opera d’arte “unica ed eterna” favorisce l’affermarsi di un tipo di autenticità nuovo e diverso, possibile ormai anche a distanza e dotato di istantaneità e momentaneità, dunque mandando in soffitta la necessità stessa della riproducibilità, che implica una ripetitività degli eventi creativi sempre uguale a se stessa. Anche una chatline, pur non essendo un prodotto dotato di artisticità, istituisce però nel sociale una istanza che va ben oltre la passiva fruizione del mondo della riproducibilità tecnica. Del resto nello sviluppo dalla “tecnica” alla “tecnologia” si registra forse un salto di qualità: nella tecnica si usufruisce facilmente di ciò che è utensile nel senso più materiale, come un martello o lo stesso giradischi, che una volta approntati non possono più essere modificati. Nel concetto di tecnologia si verifica un salto di livello, si inserisce un fattore di “logos” che forse la rende più impegnativa, appunto perché si crea la possibilità di un intervento diretto da parte dell’utente “ultimo” nell’approntarsi l’utensile e la sua fruizione, che può essere diretto anche alla modificazione dell’utensile stesso. Il martello, come il disco in vinile, non sono più modificabili una volta che siano stati predisposti dal fabbricante o dalla casa discografica. Un file MP3 invece, come si è visto (v. nota 5), una volta “scaricato” dalla rete può diventare oggetto di qualsivoglia trasformazione. Ciò pone l’”utente ultimo” su un piano di grande responsabilità, derivante dalle enormemente maggiori possibilità di gestione degli oggetti di cui fruisce, ma soprattutto dall’etica della conquista e del mantenimento di una libertà personale nel ruolo sempre meno passivo che potenzialmente gli viene richiesto. Vorrei citare quanto ho scritto in un recente intervento: “Volgendo in positivo quelle categorie che Benjamin considera in modo negativo proprio perché le ritiene ormai superate dal contesto storico e culturale, direi che la ricerca di un hic et nunc, di un nuovo e diverso tipo di aura, cioè di autenticità potrebbe oggi consistere nell’interazione creativa istantanea e momentanea di più soggetti. Non mi sembrano qui in gioco un certo tipo di contenuti piuttosto di altri (meglio il jazz, o “la classica”, o l’”etnico”), quanto la predisposizione di una “forma” che però, essendo aperta, mette l’accento soprattutto sulle caratteristiche di interazione, di istantaneità, di momentaneità. Non c’è dubbio che la forma musicale che meglio risponde a questi requisiti sia la forma aperta per eccellenza, cioè l’improvvisazione in tutti i suoi aspetti, con i suoi corollari aleatori, le sue particolari strategie di notazione, le possibilità di interattività live con tecnologie informatiche.” (7) L’ultimo aspetto che interessa qui prendere in considerazione è quello della intermedialità, anch’essa accessoria se si vuole, ma assai significativa sul piano dell’invenzione istantanea. L’improvvisazione “soltanto” musicale mantiene tutta la sua validità, ma se nel contesto creativo vengono fatte rientrare altre forme d’arte – oltre che musicali, anche letterarie e visive – il quadro può arricchirsi notevolmente. E’ sufficiente limitarsi qui ad un accenno in questo senso, ma sembra che si vada affermando con sempre maggior vigore l’intrecciarsi e il sovrapporsi di più media artistici: i termini “installazione”, “multimedia” stanno entrando nell’uso comune. La questione è semmai che spesso si assiste ad una fissità di alcune parti rispetto ad altre: è facile, tanto per fare un esempio, che la musica sia “improvvisata”, cioè creata all’istante, mentre i testi già scritti vengano semplicemente letti, la danza o la mimica seguano una coreografia o una regia, le immagini siano prefigurate e proiettate. Qualcosa si sta cominciando a fare nel campo dell’immagine, in cui grazie alla tecnologia informatica il suono può essere trasformato istantaneamente in colore. Non mi risulta però che esistano situazioni in cui artisti specializzati in arti diverse esplichino la loro opera simultaneamente. Viene da chiedersi se sia possibile lavorare ad una forma aperta intermediale, in cui tutti i parametri – suono, immagine, testo, movimenti – vengano predisposti con le doti di strutturazione interattiva (interpersonale), istantanea e momentanea di cui s’è detto sopra. Forse si apre qui per l’arte contemporanea un campo di ricerca di grande interesse.

NOTE

1. Franco Evangelisti, da un programma di sala di un concerto del Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, Stagione Pubblica della RAI, Roma, 1970.

2. Domenico Guaccero, “L’alea da suono a segno grafico”, La Rassegna Musicale, XXXI, 1961, ripreso in “di Domenico Guaccero, prassi e teoria”, Nuova Consonanza ed., 1984, pag.73.

3. T. W. Adorno, “Invecchiamento della musica moderna”, in Dissonanze, Feltrinelli, Torino 1959-1974.

4. Pubblicato in italiano, nella traduzione di Enrico Filippini, da Einaudi, Torino 1966.

5. E’ abbastanza abituale trovare in rete richiami del tipo qui riprodotto (sott. mia): Q. What is Panic Audion? A. Panic’s Audion is the incredibly versatile MP3 tool. Audion lets you organize, edit and get the most out of your music collection. Play your MP3 files with rich visualizations, organize your MP3s into playlists, and even edit your MP3s using waveforms to turn your MP3s into personalized compositions.

6. Giovanni Valentini, “Il Grande Fratello che minaccia Internet”, la Repubblica, 12.7.2003, pag. 16. Valentini inserisce una interessante citazione da D. Lyon, “La società sorvegliata”, Feltrinelli 2003, pag. 141, che qui riporto: “La SORVEGLIANZA globalizzata è un aspetto intrinseco della ristrutturazione economica del capitalismo su scala mondiale, comunemente detta globalizzazione,.”

7. Convegno internazionale IAMIC, Roma giugno 2003.